È soprattutto in momenti di siccità come quello che stiamo attraversando che il paradosso italiano dell’acqua potabile utilizzata per attività agricole o industriali è più evidente. Secondo i dati contenuti nel libro Acque d’Italia di Erasmo D’Angelis (Giunti), in Italia il 20% dei prelievi di acque è destinato all’uso domestico, il 25% al settore industriale e il resto all’agricoltura. È evidente che approntare un sistema per il trattamento delle acque reflue, per riutilizzarle in modo più ampio per limitare l’uso dei corpi idrici e delle acque sotterranee, è di primaria importanza. Lo ha stabilito nel 2020 anche il regolamento Ue 2020/741, che entrerà in vigore a giugno 2023, ma l’Italia è in netto ritardo: con la scadenza ravvicinata, il gruppo di lavoro degli esperti di Ispra e Mite incaricato di mettere a punto una legge con i criteri per il riutilizzo delle acque reflue e soprattutto per definire a chi competono oneri e gestioni di questo servizio si è riunito per la prima volta soltanto lo scorso 24 maggio.

Il tesoro del riutilizzo

Non c’è soltanto un vuoto legislativo: la carenza di infrastrutture che caratterizza il nostro sistema di distribuzione e di riserva tocca anche il riutilizzo delle acque che, siccità a parte, sarebbero un serbatoio fondamentale dal quale attingere. Secondo l’autorità di regolazione ARERA, a fronte di  un potenziale già destinabile al riutilizzo del 20%, al momento solo il 4% delle acque reflue depurate viene effettivamente valorizzato. Ancora, secondo uno studio di Ref ricerche, per il solo uso agricolo nei pressi degli impianti di depurazione potrebbero essere riutilizzati ogni anno poco meno di 5 miliardi di metri cubi di acqua depurata, coprendo circa il 45% della domanda irrigua nel nostro Paese. Quando il regolamento Ue fu approvato, l’eurodeputata Pd Simona Bonafè, che fa parte della Commissione per l’Ambiente, aveva affermato “potremmo riutilizzare potenzialmente 6,6 miliardi di metri cubi di acqua entro il 2025, rispetto agli attuali 1,1 miliardi metri cubi annui. Ciò richiederebbe un investimento inferiore a 700 milioni di euro e ci consentirebbe di riutilizzare più della metà dell’attuale volume di acqua proveniente da impianti di trattamento delle acque reflue teoricamente disponibili”.

Le eccellenze italiane

In attesa di una legge che indichi quali acque riciclate sono sicure per uso agricolo, in Italia ci sono casi di riutilizzo soprattutto per la pulizia di strade o in ambito industriale. In questo settore l’Italia ha una vera eccellenza a Prato, in Toscana, dove da anni si è costituita la Gestione impianti depurazione acque S.p.A., meglio conosciuta come GIDA, una società per azioni a capitale misto pubblico e privato con tre soci: l’Amministrazione comunale di Prato, Confindustria Toscana Nord (Lucca, Pistoia, Prato) e il Gruppo CONSIAG, che detengono rispettivamente il 46,92% il 45.08% e l’8% delle azioni. Grazie a GIDA, un distretto industriale importante ed energivoro come quello tessile riesce a non impattare sulle risorse idriche, perché ricicla totalmente le acque usate in lavorazione. Non solo: forte della sua esperienza (la società è partita negli anni ’80) ha raggiunto tali risultati nella depurazione che le sue acque riciclate potrebbero essere usate anche per altri settori. In un momento di siccità estrema, c’è chi ha più acqua di quella che gli serve per mandare avanti le sue attività e sarebbe ben contento di cederla per altri usi, ma manca una legge che indichi come farlo.

“Siamo il sistema integrato per la depurazione e il riciclo più esteso d’Italia – dice il presidente di GIDA Alessandro Brogi – e per quanto sappia siamo anche uno dei più grandi in Europa. Siamo partiti negli anni ’80, quando la legge Merli stabilì le regole per la depurazione. Il distretto tessile di Prato capì che era economicamente assai più conveniente agire di concerto, invece che in ordine sparso. Poi, considerato che li settore è molto impattante sulle risorse idriche perché usa molta acqua e i procedimenti di tintura rendono complessa la depurazione si è investito sulle tecnologie. Ben presto il distretto è diventato totalmente autonomo perché ricicla sempre la sua acqua, tanto che nel tempo le nostre industrie ne hanno avuto un notevole vantaggio competitito: possiamo dire che il tessuto prodotto a Prato non impatta su risorse primarie”.

Il vuoto normativo

L’innovazione ha poi consentito di differenziare i trattamenti delle acque industriali: “È un sistema che ci siamo inventati noi – dice Brogi – la nostra depurazione copre tutte le varietà di inquinanti, così che in questo momento abbiamo 3 volte più acqua di quella che usiamo, e si tratta di un’acqua con cui si potrebbero innaffiare giardini pubblici o campi da calcio, ma non esiste una legge che ci autorizzi a farlo. Mancano insomma i parametri che dicano come deve essere l’acqua da riutilizzare in alcuni settori”. 

L'acqua dell'impianto GIDA: all'ingresso nel depuratore, a sinistra, e all'uscita
L’acqua dell’impianto GIDA: all’ingresso nel depuratore, a sinistra, e all’uscita 

A Brogi fa eco il sindaco di Prato: “Aspettiamo che qualcuno ci dica come gestire questo surplus d’acqua – afferma Matteo Biffoni – il nostro lavoro può essere un modello utile, lo abbiamo portato in numerosi convegni ed è sempre stato accolto con grande interesse ed entusiasmo. Il riciclo di questa eccedenza sarebbe una grande risorsa: i nostri laboratori ci dicono che l’acqua potrebbe essere usata anche in agricoltura, ma se i parametri di purezza non fossero ritenuti adeguati ci sono un’infinità di altri usi. È indispensabile avviare un dibattito politico e tecnico e soprattutto, vista anche l’emergenza, bisogna dotarsi subito di una normativa chiara per velocizzare i lavori di ampliamento del nostro sistema”.