Due metodi diversi ma con un solo obiettivo, quello di evitare che l’anidride carbonica prodotta dall’industria finisca nell’atmosfera. Al Center for Sustainable Future Technologies dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Csft – Iit) di Torino hanno pubblicato due studi su altrettanti metodi per il sequestro della CO2 dai fumi di scarico di cementifici, acciaierie, impianti metallurgici, centrali a gas. Le tecniche, sviluppate all’interno della divisione Advanced Materials for Sustainable Future Technologies, mirano in più al riutilizzo dell’anidride come combustibile o alla produzione di composti ad alto valore aggiunto.

“Questi lavori rappresentano due tasselli base per una economia che abbatte e riutilizza in modo profittevole la CO2” spiega Fabrizio Pirri, coordinatore del Csft-Iit. “I costi degli impianti sono bassi, che uno degli ostacoli maggiori. E abbiamo già accordi per costruire i primi dispositivi sperimentali per poi passare alla produzione vera e propria”.

 

Il gruppo guidato da Sergio Bocchini (lo studio è stato pubblicato su Journal of CO2 Utilization) ha un approccio chimico fisico e mira alla sola cattura dell’anidride. Per separare il gas serra dal resto, si sfruttano dei liquidi ionici, ovvero sali fusi a temperatura ambiente a base di aminoacidi e altre molecole biologiche, combinati a solventi che hanno un punto di ebollizione molto alto. In questo modo si riesce a costruire un dispositivo che sfrutta il calore emesso dal processo industriale stesso e, senza l’apporto di altra energia, riesce a sequestrare dai gas di scarico la CO2. A quel punto si potrebbe trasformarla, con l’ausilio di altri apparecchi, in combustibile o in composti chimici. “Il prezzo di una struttura simile è quello di una caldaia, va dalle poche centinaia di euro a decine di migliaia di euro secondo la dimensione”, prosegue Pirri.

Il centro di ricerca de Iit a Torino 

Il gruppo guidato da Adriano Sacco invece (il loro lavoro è stato pubblicato sulla rivista internazionale Energies) cattura la CO2 trasformandola direttamente in altro grazie ad un processo elettrochimico. In questo caso non viene usato il calore ma l’elettricità: in pratica si tratta di un reattore basato su reagenti di bicarbonato e cloruro di sodio, assolutamente compatibili con l’ambiente, che cambiano la struttura della molecola del gas serra. La trasformazione avviene grazie all’utilizzo di un dispositivo fotovoltaico che fornisce l’energia necessaria. Ma se non dovesse essere disponibile, bisognerebbe per forza usare quella di altre fonti. “Rispetto alla prima soluzione il prezzo dell’impianto è più elevato in relazione all’energia usata”, ammette Pirri. “Ma quei c’è anche la trasformazione della CO2 in combustibile o in molecole da usare in prodotti industriali”.

Le idee

Mettiamo la CO2 nei nostri motori

di Roberto Battiston

Il pregio di entrambe le tecniche sta nel poterle inserire nei processi esistenti. A differenza di quanto sta già facendo la candese Carbon Engineering, che si concentra sulla cattura a posteriori dei gas serra, all’Iit puntano ad evitare che vengano immessi nell’atmosfera all’origine. E i costi per farlo non sarebbero proibitivi. Il sistema della Carbon Engineering si aggira ad esempio attorno ai 150 dollari per tonnellata di CO2 tolta di mezzo. Per pareggiare i conti con l’ambiente l’Italia, che ne produce circa 355 milioni all’anno, dovrebbe spendere oltre 52 miliardi di dollari. Cifra che appare difficile da far digerire alla maggior parte degli Stati.

 

Le due soluzioni dell’Iit sono ancora in fase sperimentale. “Ci vorranno ancora fra i tre e i cinque anni prima di vederli applicati su larga scala”, conclude il coordinatore del Csft-Iit. “È il tempo minimo per trasformare un prototipo in realtà”.