Si chiamano Ecoremat e Ecotessili, Retex.green e Cobat, quest’ultimo nato appena all’inizio di aprile. Sono i primi consorzi creati in Italia per la gestione dei rifiuti tessili. Perché, se da una parte l’Italia, in anticipo di tre anni rispetto agli altri paesi europei, dal gennaio 2022 ha reso obbligatoria la raccolta differenziata di questo tipo di scarti, sono però ancora molti i problemi per rendere davvero operativa e funzionante l’intera filiera. Soprattutto manca una sorta di “catena di regia”. Al momento infatti in molte zone del Paese la raccolta differenziata dei tessuti è stata affidata a cooperative sociali che hanno installato contenitori.    

Chi inquina paga

Così, in attesa che diventi operativo il sistema EPR (Extended Producer Responsability) secondo il principio europeo “chi inquina paga”, – ossia che vengano varate quella serie di norme per assicurare che ai produttori spetti la responsabilità sia finanziaria sia operativa della gestione del ciclo di vita in cui il prodotto diventa un rifiuto (comprese le operazioni di raccolta differenziata, di cernita e trattamento) – si cercano soluzioni alternative. Ma saranno temporanee o diventeranno parte integrante delle filiera?

L’idea di affidare la gestione collettiva dei rifiuti tessili ai consorzi – sul modello di quanto già accade per smaltire gli imballaggi, i rifiuti Raee (elettrici e elettronici), i penumatici – è nata quando il ministero della Transizione ecologica ha coinvolto una serie di soggetti nella questione dell’EPR. Lo strumento considerato comunque più efficace per contrastare l’ingente impatto climatico del settore fashion: 10% delle emissioni globali di gas a effetto serra secondo i dati della Commissione europea.

I consorzi

Il primo consorzio nasce all’interno di un sistema esistente: Sistema Ecolight che si occupa già della gestione dei rifiuti Raee. Ecoremat per lo smaltimento dei materassi e altri oggetti imbottiti dismessi e Ecotessili per tutti gli altri.

 

Nel consorzio Retex.Green sono invece presenti i produttori italiani, è recente e porta la firma di SMI (Sistema Moda Italia) e Fondazione del Tessile Italiano. Qui ci sono alcuni passaggi che saranno previsti nella futura “responsabilità estesa del produttore” (EPR). Il Consorzio infatti spiega di voler dare vita “ad un network qualificato di fornitori che si occuperanno di tutte le fasi connesse alla raccolta, selezione e cernita dei rifiuti provenienti dal tessile, dell’abbigliamento, della calzatura e della pelletteria”.

Anche in Cobat Tessile l’ultimo nato (aprile 2022) sono presenti i produttori e associazioni di piccole, medi e grandi imprese come CNA e Confartigianato. Cobat è una piattaforma multifunzionale controllata dal gruppo Innovatec per la gestione di Raee.

L’impatto ambientale del fashion

Secondo le stime di Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), il 5,7% dei rifiuti indifferenziati è composto da rifiuti tessili, si tratta di circa 663mila tonnellate l’anno destinate a smaltimento in discarica o nell’inceneritore e che potrebbero essere, in grande parte, riutilizzate o riciclate.

Sempre secondo Ispra, la media nazionale pro capite di raccolta di rifiuti tessili è di 2,6 chili per abitante. Al Nord siamo 2,88;  al Centro di 2,95 chili e solo due chilogrammi al Sud.

Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Marche hanno già superato la soglia dei 3 chilogrammi per abitante, mentre Valle d’Aosta e Basilicata sono vicine alla soglia dei 4 chili, quota superata dal Trentino Alto-Adige. Al contrario, Umbria e Sicilia raccolgono in modo differenziato meno di 1 chilo di tessile per abitante.

Non tutto il tessile è abbigliamento

Vista la rilevanza del settore, il pacchetto di direttive europee sull’economia circolare ha stabilito che ogni Stato membro dovrà istituire la raccolta differenziata dei rifiuti tessili a partire dal 2025. La gestione non sarà comunque semplice. Uno dei problemi principali che restano da chiarire è come ridefinire la filiera della raccolta e del recupero chiarendo come selezionare i rifiuti omogenei, e per questo destinati a riciclo e a usi alternativi, da quelli del post consumo, disomogenei.

In pratica, non tutto il tessile è abbigliamento e non tutto l’abbigliamento è tessile. C’è poi la questione dei capi non riciclabili e gli incentivi per le aziente a produrre con materiali riciclabili. Di risorse si parla nel Pnrr (Piano di Ripresa e Resilienza) e anche della realizzazione di nuovi impianti di riciclo delle frazioni tessili: i Textile Hubs. Dovrebbero far diventare realtà l’obiettivo dichiarato dal MiTe di raggiungere il 100% di recupero nel settore tessile. 

Quindi, si ritorna alla regia che manca e che dovrebbe coordinare tutta la filiera del riciclo. E naturalmente di risorse. L’unica cosa certa: il Piano di Azione per l’Economia Circolare approvato dal Parlamento europeo lo scorso 10 febbraio prevede che l’economia circolare sia applicata anche al settore tessile da tutti gli stati membri. Ultima chiamata: 2025.