Stefania Leopardi è una veterinaria, esperta di malattie infettive negli animali selvatici ed esotici. Lavora presso l’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie e per buona parte del suo tempo conduce indagini. Già, perché se sei esperta di malattie infettive negli animali selvatici, parte del lavoro è dedicato a fare il controllore – o meglio, il sorvegliante – e a ricostruire le strade percorse dai patogeni. Per identificare pericoli tanto per la salute degli animali quanto per quella degli esseri umani. E se in alcuni casi le indagini sono abbastanza semplici – è facile trovare subito i sospettati e metterli alla prova – in altre sono più complicate. Non di rado poi si concludono con lo scagionamento dei principali indiziati: succede ai pipistrelli, ospiti graditi di tantissimi virus e sorvegliati speciali da parte della veterinaria. Al punto che – mettendo in fila gli eventi degli ultimi due anni dalla prospettiva personalissima e professionale di cacciatrice di virus e raccontando le dinamiche degli spillover – Leopardi li assolve del tutto. Si intitola infatti L’innocenza del pipistrello, il suo libro per Edizioni Ambiente, con un altrettanto eloquente sottotitolo: (Eco) logica di uno spillover.

“I pipistrelli sì convivono con molti virus, ma ogni organismo ha i propri virus, è qualcosa di normale, atteso, logico. Al contrario con lo spillover si ha una rottura di questo equilibrio, dovuta per lo più ad azioni umane, per un aumento del contatto con il virus e il suo ospite naturale – racconta a Green&Blue – Quindi se all’inizio possiamo vedere il pipistrello come ‘colpevole’, in realtà è solo una sorta di spioncino per vedere tutte le azioni che noi, come specie, stiamo facendo sull’ambiente, che sono quelle che favoriscono il salto di specie dei patogeni, indipendentemente dalla presenza dei virus”.

Perché sebbene lo spillover possa considerarsi un fenomeno naturale, di per sé sarebbe abbastanza raro: per spiegarlo Leopardi ricorre all’immagine di una corsa ad ostacoli, quelli che un virus deve passare per fare il salto di specie finale. “L’unica ‘colpa’ dell’animale è essere presente ed eliminare il virus, cosa che l’animale fa naturalmente – spiega – il resto sono contributi dovuti al caso, ovvero se il virus è o meno in grado di infettare l’essere umano, o all’uomo, che favorisce questo contatto, o direttamente con il contatto con gli animali selvatici, o tramite fattori intermedi, come gli animali domestici”.

 

La presenza dei virus nei loro ospiti dunque è un fatto normale dal punto di vista ecologico. Non lo è tutto quello che viene dopo. Virus quali i Sars-like coronavirus, per esempio, sono ormai vecchie conoscenze, stanno con noi da tempo, ricorda la ricercatrice. Al punto per cui, alla notizia di un cluster di malattie respiratorie in Cina, arrivata a capodanno del 2020 dritta nella email di Leopardi, tramite la mailing list di PROMED, riservata agli infettivologi – soprattutto a quelli “appassionati di malattie emergenti”, scrive la ricercatrice – il pensiero è andato quasi subito a un coronavirus.

Lo studio

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di Annalisa Bonfranceschi

“La storia che si ripete”, ricorda Leopardi, riferendosi chiaramente alla Sars di qualche anno prima. Troppo strano, infatti, il fatto che la Cina – dove certo non mancano le possibilità diagnostiche – non fosse riuscita a identificare le cause di quelle polmoniti. Quello che avvenne dopo è ormai storia. Il sequenziamento del genoma del virus mostrò che si trattava effettivamente di un Sars-related coronavirus, indirizzando l’attenzione di Leopardi e colleghi verso i Rinolophus, noti come pipistrelli ferri di cavallo.

Ogni genere di pipistrelli ha il suo tipo di coronavirus e i sars-like sono collegati a questo genere in particolare – spiega la ricercatrice – Ma parliamo di animali che vivono in grotta, non dovremmo venire a contatto con loro, ma in ambienti modificati con progressiva distruzione e perdita di habitat, questi animali si trovano più spesso vicino a noi”.

A volte in maniera anche indiretta. È il caso, curioso, raccontato nel libro dalla ricercatrice che risale alla prima estate con la pandemia, quando arriva la notizia di un gatto che ha morso alcune persone ad Arezzo, e in cui è stato ritrovato un virus di cui non si aveva praticamente notizia, se non per una segnalazione del 2002. In Russia, in un miniottero comune (un pipistrello). È un lyssavirus (il genere di cui fa parte il virus della rabbia). Ma spiegare la sua presenza in quel gatto era un mistero.

 

Le indagini, su impulso del Ministero della salute, puntavano ai pipistrelli, al miniottero appunto, che però in città non dovrebbe esserci. “Abbiamo cercato altre specie di pipistrelli, analizzando tutti quelli trovati morti o deceduti nei centri di recupero, finché non abbiamo trovato in un tunnel il miniottero. Li abbiamo catturati, prelevato il sangue, e liberati e abbiamo avuto la conferma: avevano anticorpi diretti contro il virus”. L’indagine ecologica, con tanto di fototrappole che hanno immortalato gatti andare e venire dal tunnel, e la vicinanza della casa di quel gatto in particolare alla colonia positiva, ha permesso di chiudere il cerchio, spiega Leopardi.

“Il problema, anche in questo caso, non è la presenza del virus nei chirotteri. Quello che dovremmo chiederci semmai è perché questo pipistrello che normalmente abita in grotta si è dovuto spostare fino in città? Forse i suoi ambienti naturali non sono più così adatti, obbligandolo a cambiare casa, e a incontrare un gatto predatore, che poteva fungere da ponte tra pipistrello e uomo se fosse stato in grado di trasmettere ulteriormente il virus. Cosa che fortunatamente non è stata”.