L’abolizione del divieto dell’uso di pesticidi in aree di interesse ecologico e l’utilizzo dei terreni a riposo – meno produttivi dal punto di vista agricolo ma essenziali per la conservazione della biodiversità – sono solo alcune delle richieste “irrazionali e controproducenti” delle lobby dell’agricoltura tradizionale e di diversi politici per affrontare le conseguenze della guerra in Ucraina. Queste “ci ricordano quanto sia fragile la sicurezza alimentare, basata su modelli di produzione agricoli intensivi” afferma il Wwf che, per anticipare il lancio della Campagna Food4Future, ha diffuso 10 domande e risposte per sfatare i falsi miti sulla sicurezza alimentare.

1. È vero che la guerra ha messo in crisi il sistema agroalimentare italiano?

NO: gli effetti della crisi collegata alla guerra in Ucraina sui sistemi agroalimentari in Italia sono limitati solo ad alcune materie prime che il nostro Paese importa dall’est dell’Europa, in particolare mais e olio di girasole. L’unico settore che avrà delle ripercussioni dirette è quello zootecnico, grande consumatore di mais: in UE il 70% delle materie prime per i mangimi degli animali (fra cui mais) è infatti di origine extra UE. Anche in Italia maggior parte (oltre l’80%) del mais è destinata all’uso zootecnico e solo la restante parte è utilizzata per altri impieghi.


Oltre alla perdita del mais ucraino (da cui proviene quasi la metà del mais importato in Europa e il 13% di quello importato in Italia), è stato annunciato il blocco delle esportazioni di mais anche dall’Ungheria per tutelare la domanda interna, ma anche per speculazioni finanziarie legate all’aumento dei prezzi sul mercato globale. L’Ungheria con circa il 35% è il principale fornitore di mais per l’Italia. Le importazioni di mais dell’Italia rappresentano poco meno del 50% della domanda interna, in aumento da alcuni anni in conseguenza del crollo delle superfici a mais in Italia. Gli agricoltori italiani hanno, infatti, smesso di produrre mais per la filiera zootecnica per il suo basso prezzo sul mercato, preferendo altre colture in grado di garantire redditi più alti. Il risultato di queste scelte, dettate solo dalla logica del massimo profitto, è la perdita dell’autosufficienza nella produzione di mais in Italia, ridotta in un decennio al 50% del fabbisogno totale.


Anche la filiera dell’olio di girasole (usato per conserve, prodotti da forno, salse, fritture) risentirà degli effetti della guerra, perché l’Ucraina detiene il 60% della produzione e almeno il 75% dell’export mondiale e rappresenta il principale coltivatore di girasoli al mondo. L’olio di girasole può essere però sostituito con altri oli vegetali disponibili sul mercato.

2. È vero che quest’anno avremo carenza di grano e cereali a causa della crisi ucraina?

NO: le aziende agroalimentari italiane importano dall’Ucraina una ridotta quantità di grano, il 5% del proprio fabbisogno, che può essere agevolmente soddisfatto dalla produzione europea di frumento che supera attualmente la domanda interna degli Stati membri dell’Unione. L’aumento del costo del grano, duro e tenero, è in atto da ben prima del conflitto in Ucraina ed è causato da una parte dalle speculazioni finanziarie e dall’altra dalla riduzione delle produzioni in Canada, come conseguenza della siccità che ha colpito il nord America nella stagione 2020-21. Nel 2022 eventuali carenze di grano o altri cereali in Italia potrebbero essere generate dalla grave siccità che sta colpendo il nostro Paese e che avrà ripercussioni sul raccolto di quest’ estate. I Paesi più vulnerabili agli effetti della guerra, per la loro forte dipendenza dalle importazioni di frumento dall’Ucraina e dalla Russia, sono quelli del nord Africa, un problema questo che dovrà essere affrontato dalla FAO, trovando fonti di approvvigionamento alternative. Gli agricoltori dovrebbero preoccuparsi maggiormente degli effetti di medio e lungo periodo del cambiamento climatico, non solo per l’aumento della siccità e della frequenza e intensità degli eventi meteorologici estremi, ma soprattutto per gli effetti ripetuti nel tempo sulle produzioni agricole.

3. Le speculazioni finanziarie stanno condizionando la produzione di materie prime agroalimentari?

SÌ: una delle possibili cause della crisi del settore agroalimentare, determinata dall’aumento dei prezzi delle materie prime, oltre che dei carburanti e dei fertilizzanti chimici di sintesi, è da individuare senz’altro nella speculazione finanziaria. Vi è una differenza sostanziale nella logica d’azione degli operatori commerciali tradizionali da quelli finanziari. I primi prendono le loro decisioni di acquisto e vendita dei “futures” (contratti che stabiliscono l’impegno da parte dei contraenti a vendere e acquistare una certa quantità di merce ad una data futura per un prezzo stabilito) principalmente in base alle previsioni dei livelli di produzione delle materie prime agricole, sulla base degli andamenti della domanda e sulle informazioni relative alla consistenza

delle riserve esistenti. Gli operatori finanziari sono guidati, invece, da logiche svincolate dai livelli della produzione agricola, seguendo esclusivamente le intenzioni di vendita o acquisto dei titoli che sono di breve o brevissimo termine. Un aumento del valore dei “futures” induce coloro che li posseggono a ritardarne la vendita per poter realizzare maggiori ricavi in futuro grazie all’aumento dei prezzi. Il risultato complessivo è che i prezzi salgono ancora di più perché l’offerta cala e la domanda cresce, indipendentemente dalla produzione agricola reale, solo per effetto delle strategie di acquisto e vendita dei titoli. Si creano così bolle speculative dove l’andamento dei prezzi delle materie prime non riflette le tendenze reali della produzione agricola, ma segue le transazioni dei relativi titoli finanziari.

4. Le lobby dell’agricoltura convenzionale stanno strumentalizzando la crisi legata alla guerra?

SÌ: le associazioni agricole a livello europeo e nazionale stanno utilizzando le difficoltà collegate alla guerra in Ucraina, amplificandole, senza vere motivazioni oggettive sostenute da dati che dimostrino il rischio di una reale crisi alimentare nel nostro Paese e in Europa. L’obiettivo è fare pressione sui decisori politici per cancellare o ridimensionare le norme ambientali della nuova Politica Agricola Comune (PAC) e gli obiettivi delle due Strategie UE del Green Deal, “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”. Queste due Strategie dell’UE prevedono, entro il 2030, la riduzione del 50% dell’uso dei pesticidi e antibiotici, la riduzione del 20% dell’uso dei fertilizzanti chimici di sintesi, l’aumento fino al 25% – a livello europeo – della superficie agricola utilizzata (SAU) per l’agricoltura biologica e la creazione di aree destinate alla conservazione della natura nel 10% delle superfici agricole. Sono tutti obiettivi che impattano sugli interessi economici dell’agroindustria, legati alla produzione di pesticidi e concimi chimici, nonché alla produzione agricola intensiva in generale. Per questo motivo, le potenti lobby agricole hanno cercato di ostacolare queste Strategie europee fin dalla loro presentazione ufficiale, il 20 maggio 2020, riuscendo a condizionare la recente riforma della PAC, evitando fino ad oggi di rendere questi obiettivi ambientali vincolanti per gli Stati membri. La nuova PAC contiene, comunque, alcune novità importanti, utili per l’attuazione delle due Strategie UE, tra cui l’obbligo delle rotazioni delle colture e l’obbligo di destinare alla conservazione della natura almeno il 4% delle superfici utilizzate per i seminativi, ma solo per le aziende che hanno una SAU superiore ai 10 ettari. La guerra in Ucraina ha offerto l’occasione per chiedere l’eliminazione di queste norme ambientali della PAC.

5. È importante ridare spazio alla natura nelle aziende agricole?

SÌ: L’agricoltura è il settore economico che più dipende dai “servizi ecosistemici”, ovvero da quella serie di benefici che i sistemi naturali generano a favore delle società umane, come la formazione del suolo, la fornitura di acqua, la regolazione del clima, l’impollinazione e tanti altri. È evidente che molti di questi servizi, che dipendono dalla biodiversità, sono essenziali per garantire la stessa produttività agricola. L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha documentato come, per assicurare la stabilità degli agroecosistemi dai quali dipendono tutte le produzioni di cibo e materie prime agricole, sarebbe necessario destinare nelle aziende agricole almeno il 10% delle superfici alla conservazione della biodiversità naturale e dei suoi relativi servizi. Questo obiettivo è stato pertanto inserito nella Strategia Biodiversità 2030 dell’UE, che ha sostanzialmente recepito le

indicazioni fornite dalla scienza. Le aree dedicate alla natura nelle aziende agricole non sono aree incolte improduttive, sono invece aree dove si producono e mantengono i servizi ecosistemici indispensabili per l’agricoltura stessa, come nel caso della conservazione degli insetti impollinatori che hanno necessità di queste aree naturali per la loro alimentazione e riproduzione.

6. Il cambiamento climatico sta già influenzando le produzioni agricole?

SÌ: i periodi di siccità prolungata, che riducono i raccolti o fanno aumentare a dismisura i costi di produzione, e l’aumento nella frequenza e nell’intensità degli eventi meteorologici estremi (come alluvioni, grandinate, gelate tardive) impattano direttamente sulle colture agricole in campo. L’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici) presentato il 28 febbraio 2022 e dedicato agli “impatti, adattamento e vulnerabilità” connessi al cambiamento climatico, identifica quattro categorie di rischi-chiave per l’Europa: 1) maggiore frequenza e intensità delle ondate di calore su popolazioni ed ecosistemi; 2) scarsità della produzione agricola a causa di una combinazione di caldo e siccità; 3) scarsità di risorse idriche nell’Europa meridionale; 4) maggiore frequenza e intensità delle inondazioni. Tre di queste categorie di rischio su quattro hanno impatti diretti e indiretti sulla produzione agricola, già oggi evidenti. Nella scorsa estate, per esempio, il comparto frutticolo italiano ha avuto – a causa del cambiamento climatico – una perdita media complessiva del 27%.

7. Consumare meno carne è un fattore di sicurezza per tutto il comparto agroalimentare?

SÌ: attualmente il 70% della superficie agricola utilizzata in Europa è dedicata a materie prime destinate ai mangimi per la zootecnia intensiva, necessari per sostenere una produzione e una domanda crescenti di carni, salumi, formaggi, latticini, uova e pellami per l’abbigliamento e l’industria manifatturiera. Nonostante l’uso di questa grandissima percentuale di superficie agricola, il mercato delle materie prime destinate alle filiere zootecniche dipende anche, e sempre più, dalle importazioni da Paesi extra UE, rendendosi responsabile della deforestazione e distruzione di ecosistemi nelle aree più ricche di biodiversità del nostro Pianeta, come avviene in Sud America con l’estendersi incessante delle coltivazioni di soia e di pascoli per l’allevamento dei bovini da carne. La zootecnia, inoltre, è la principale responsabile delle emissioni di gas climalteranti da parte dell’agricoltura, dove un ruolo importante lo ha il metano, generato dal metabolismo degli animali allevati e dalla gestione delle deiezioni zootecniche responsabili anche del grave inquinamento da nitrati di suoli e corsi d’acqua. L’Italia importa dall’estero il 90% della soia e il 50% del mais, materie prime utilizzate in larga parte per la produzione di mangimi per la zootecnia. Questa dipendenza dall’estero incide significativamente sui prezzi, che registrano un continuo aumento per tutte le materie prime utilizzate per i mangimi, con rialzi in alcuni casi anche superiori al 100%. L’Europa e con essa l’Italia hanno fortemente puntato sulla zootecnia intensiva attirate dalla maggiore redditività per le aziende agricole. In realtà i margini di guadagno economico per le aziende zootecniche si sono ridotti sempre di più nell’ultimo decennio e la loro sopravvivenza dipende oggi solo dai consistenti sussidi pubblici della PAC dell’UE. Ridurre la domanda di carne e prodotti di origine animale consentirebbe di ridimensionare il comparto della zootecnia intensiva, con una riduzione del numero di animali per allevamento a favore di una produzione animale più estensiva, basata sul pascolo. La superficie agricola liberata dalle produzioni destinate alla zootecnia potrebbe essere così destinata a produzioni alimentari per uso umano diretto.

8. È corretto sostenere che bisogna intensificare sempre di più le produzioni per aumentare la sicurezza alimentare?

NO: l’agricoltura intensiva, basata sulle pratiche convenzionali dipendenti dagli input chimici (fertilizzanti e pesticidi), motivata dalla massimizzazione dei profitti, promette di “sfamare il mondo” producendo grandi quantità di beni alimentari omogenei (“commodities”) con bassi costi di produzione, in modo che possano essere distribuiti da catene logistiche globalizzate. Questo sistema, apparentemente efficiente, funziona però a scapito dei sistemi naturali – che sostengono tutta l’agricoltura – ed è fortemente dipendente, direttamente e indirettamente, dalle fonti energetiche fossili per la produzione di fertilizzanti chimici e pesticidi, per l’utilizzo dei mezzi meccanici, per le filiere logistiche globali. Di conseguenza, qualsiasi fattore che determini crisi negli approvvigionamenti delle materie prime o comporti un aumento dei costi di carburanti, energia o fertilizzanti chimici, ha ripercussioni immediate sui costi di produzione e sui prezzi di mercato, che condizionano anche l’accessibilità del cibo ad un prezzo equo per tutti i cittadini, in particolare nei Paesi più poveri. L’intensificazione della produzione non è sostenibile nel lungo termine sia per gli elevati impatti sull’ambiente, sul clima e sulla biodiversità, sia per la dipendenza dai mercati globali, resi sempre vulnerabili dalle speculazioni finanziarie basate sulle transazioni a livello internazionale delle materie prime agricole.

9. L’agroecologia propone delle soluzioni praticabili?

SÌ: l’agroecologia è la scienza che applica i concetti e i principi dell’ecologia per progettare e gestire sistemi agro-alimentari sostenibili. È nel contempo una disciplina scientifica, un movimento, un insieme di pratiche che guarda all’intero sistema alimentare, per raggiungere obiettivi di produttività, stabilità, sostenibilità, per costruire nuove relazioni ed equilibri tra risorse naturali disponibili, agricoltura ed esigenze della società. Il Wwf promuove l’agroecologia quale pratica che contribuisce a regimi alimentari sani, sostenibili, equi, accessibili, diversificati, stagionali e culturalmente appropriati. Rafforzare la vitalità degli ecosistemi nelle zone rurali, attraverso una rinaturalizzazione delle campagne, una migliore integrazione di zootecnia e agricoltura e una riduzione degli input chimici in campo, consente di creare sistemi produttivi integrati e resilienti, capaci di garantire una migliore sicurezza alimentare in tempi di crisi, così come un’equa redditività agli imprenditori agricoli. L’agroecologia si basa sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili e sull’esperienza e competenza degli agricoltori, promuovendo comunità di pratiche innovative e sostenibili. L’attenzione ai sistemi locali riduce la dipendenza dall’importazione delle materie prime agricole e aumenta la resilienza dei sistemi agroalimentari. Nell’approccio agroecologico è importante anche il ruolo della zootecnia sostenibile, all’interno di ogni singola azienda agricola o di un comprensorio territoriale locale, per favorire la vitalità del suolo e la presenza di sostanza organica e incrementare il livello di biodiversità nei sistemi agricoli.

10. È vero che bisogna puntare sulle filiere corte?

: le filiere corte, basate sulla relazione diretta tra agricoltori e consumatori nei territori, sono un aspetto importante dell’approccio agroecologico, in quanto favoriscono la multifunzionalità delle aziende agricole garantendo maggiori margini economici nel rapporto costi di produzione e entrate derivanti dalla vendita diretta, spesso per prodotti trasformati ad elevato valore aggiunto (conserve, salumi, formaggi e latticini). Le filiere corte possono essere importanti per garantire al sistema agricolo una maggiore flessibilità e una rispondenza alla domanda locale, con una minore dipendenza dalle filiere logistiche globali e dalle importazioni dall’estero delle materie prime, ma solo quando l’azienda agricola è gestita secondo i criteri dell’agroecologia, come nel caso delle aziende agricole biologiche. Tuttavia i sistemi agroalimentari locali a filiera corta non sarebbero mai in grado di soddisfare completamente i fabbisogni alimentari di un Paese con milioni di abitanti, in particolare quando esiste una forte concentrazione della popolazione nelle città lontane dalle aree agricole. È, quindi, necessario ricercare il giusto equilibrio tra produzioni locali diversificate e filiere agroindustriali sostenibili, creando relazioni con reti diffuse di produttori a livello nazionale ed europeo, riducendo la dipendenza dalle importazioni da Paesi extra UE e fissando criteri di sostenibilità ambientale, sociale ed economica nella produzione delle materie prime.


Il governo italiano, fino ad oggi, non ha promosso una vera transizione ecologica della nostra agricoltura, ma, piuttosto, ha accolto le richieste delle associazioni agricole e zootecniche e dei grandi gruppi industriali dell’agrochimica, gli stessi che producono quegli input di sintesi necessari per l’agricoltura convenzionale.

Questa impostazione è stata confermata con la redazione di un Piano Strategico Nazionale (PSN) della PAC post 2022 non adeguato alla transizione ecologica della nostra agricoltura. Una visione che non guarda al futuro della nostra agricoltura che evidenzia una scarsa percezione dei rischi connessi alle crisi ambientali globali. Unica nota positiva della politica agricola del nostro governo è l’investimento sull’agricoltura biologica con un obiettivo al 2030 superiore rispetto alla media europea del 25%, indicato dalle Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”.

Principali fonti consultate: Ismea, Assazoo, Assitol