Dal 2014 il primo mese dell’anno è diventato Veganuary, il gennaio vegano. L’iniziativa – nata dall’omonima organizzazione no profit – promuove uno stile di vita che elimina i prodotti di origine animale da provare, per cominciare, durante tutto gennaio. Diventare vegani, o almeno provarci, non ha unicamente lo scopo di salvare gli animali dal macello. Se già in passato il bene del Pianeta era terzo sul podio delle motivazioni più popolari per l’adesione alla campagna, quest’anno l’associazione ha esortato le persone a preferire cibi di origine vegetale proprio per combattere la crisi climatica, considerando che gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5% delle emissioni totali di gas serra. Ma questo non significa che i cibi vegetali non abbiano nessun impatto.

A causa del consumo eccessivo di carne e derivati animali la nostra alimentazione sta diventando insostenibile. Per questo sempre più persone hanno virato verso una dieta più vegetale: negli ultimi tre anni, secondo una ricerca Tiendeo, la scelta di frutta e verdura da parte dei consumatori italiani è aumentata del 59%, mentre nel solo 2021 sono più che triplicate le promozioni di prodotti vegani e vegetariani sui cataloghi online dei negozi. Opzioni non solo per chi ha fatto proprio questo stile di vita. Lo studio intitolato The Future of Plant-based Snapshot del gruppo Npd ha sottolineato infatti come il 90% dei consumatori di prodotti vegetali è onnivora, ma alla ricerca di alternative alla carne e ai derivati.

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Nel 2021 la sfida di Veganuary è stata raccolta da oltre 582mila persone in 209 Paesi, il 45,5% in più rispetto all’anno precedente, quando le adesioni si erano fermate a 400mila. Tanti sono stati anche i partecipanti italiani: il nostro Paese si è classificato settimo tra i più attivi della campagna. Ma una dieta vegana è davvero la soluzione alla crisi climatica? “Sicuramente è uno stile di vita meno impattante – spiega Francesco Tubiello, responsabile statistiche agro-ambientali della Fao – e le scelte personali sono importanti. A livello globale però, se la domanda è ‘dobbiamo diventare tutti vegani?’, la risposta è no”.

Secondo uno studio appena pubblicato su Nature Food se 54 nazioni ad alto reddito prediligessero una dieta povera di carne e derivati, eliminando gli allevamenti si ridurrebbero le emissioni annuali della produzione agricola di quasi due terzi. E rinaturalizzando i terreni così liberati, grazie al sequestro di carbonio della vegetazione ritrovata, si rimuoverebbero altri 98,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera entro la fine del secolo.

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“I numeri non mentono – prosegue Tubiello – ma non tutte le carni sono uguali. Il pollo inquina meno del manzo, per esempio. Il vero problema è la carne rossa che proviene dagli allevamenti intensivi. Servirebbe una politica che limita questi sistemi”.

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Tanti sono ancora i finanziamenti che supportano queste pratiche insostenibili. Come riporta un altro studio su Nature Communications, nel 2017 l’Unione europea ha erogato oltre 60 miliardi di euro in sovvenzioni all’agricoltura, di cui poco più del 15% è andato alla coltivazione di frutta e verdura mentre circa la metà è stato speso per carne e latte. Se queste percentuali cambiassero, sottolineano i ricercatori, potrebbero portare a riduzioni delle emissioni di gas serra e miglioramenti nella salute della popolazione senza riduzioni del benessere economico.

Nella quotidianità, un fattore da tenere in considerazione è quali alternative si scelgono. Esistono un’infinità di sostituti dei derivati animali, ma alcuni sono altrettanto insostenibili. Uno su tutti l’avocado: per un singolo frutto servono circa 70 litri d’acqua, 14 volte in più rispetto a quella utilizzata per un pomodoro. La sua richiesta è talmente cresciuta negli ultimi anni che in Cile i proprietari della piantagioni hanno installato pozzi e canali illegali, lasciando letteralmente a secco i villaggi vicini, mentre in Messico per far spazio a questi alberi sono state deforestate intere distese di conifere tropicali, con danni gravissimi alla fauna locale. Senza considerare le emissioni dovute al trasporto aereo.

Per quanto riguarda le carni vegetali, come le ormai celebri Beyond Meat e Impossible Burger, le opinioni sono contrastanti. Rispetto a un tradizionale hamburger di manzo, riporta la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, il sostituto a base di soia di Impossible Burger per essere prodotto consuma il 96% in meno di suolo, l’87% in meno di acqua e genera l’89% in meno di emissioni di gas serra. Ma questi dati positivi sull’inquinamento potrebbero essere solo parziali. Alcune società di monitoraggio degli investimenti sostengono sul New York Times che le due aziende non rendono pubblica la quantità totale di emissioni legate all’intera filiera, dalle catene di approvvigionamento degli ingredienti allo spreco dei consumatori. D’altra parte, dicono invece i sostenitori della carne finta, anche se producono delle emissioni non c’è dubbio che inquinino meno degli allevamenti intensivi e soprattutto hanno il pregio di avvicinare a uno stile di vita meno impattante anche i palati più riluttanti ad abbandonare la carne.

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Cibi sostitutivi a parte, la dieta più salutare per noi e per il Pianeta è sicuramente ricca di cereali, legumi, frutta e verdura, possibilmente locali e coltivati in maniera etica e sostenibile. “Fare la lotta al bestiame tout court non è possibile, perché passare dai modelli alla pratica è complicato. E poi anche la coltivazione va fatta con criterio: pensiamo alla deforestazione che provocano le colture intensive di avocado, soia, olio di palma. Mangiare totalmente vegetale, da solo, non salva il Pianeta. Bisogna scegliere pratiche sostenibili, che non sprechino altre risorse come suolo e acqua, e non farsi ingannare da quelle aziende che vogliono pulirsi la coscienza solo con crediti di carbonio e compensazione delle emissioni. Capire da dove arriva il cibo – conclude Tubiello – è molto importante”.