El Niño, e la sua corrispondente controparte La Niña, sono tra i fenomeni climatici più noti. Provocano un riscaldamento, o un raffreddamento, delle acque dell’oceano Pacifico e sono quelli che più condizionano il clima di tutto il pianeta. Sono oscillazioni periodiche del sistema oceano-atmosfera, hanno un periodo variabile dai due ai sette anni. Il nome è stato dato dai pescatori peruviani alla fine dell’Ottocento, in riferimento al bambinello Cristo, che nasce in quel periodo, perché durante il periodo natalizio il mare diventava meno pescoso.

 

L’indebolimento del Niño atlantico

Negli anni recenti si è scoperto però che uno schema simile si verifica anche nell’Atlantico, dove si alternano periodi di riscaldamento e raffreddamento che modificano la circolazione atmosferica. El Niño atlantico viene definito come il fratellino di quello pacifico, la sua ampiezza è circa la metà del maggiore, e appare nelle nostre estati. I due fratelli sono correlati, anche se gli studi sulla loro connessione sono ancora agli inizi. Entrambi vengono fortemente influenzati e modificati dal riscaldamento globale. El Niño del Pacifico condiziona anche quello dell’Atlantico, riscaldando anche le sue acque e perturbando per esempio la Corrente del Golfo.

Due studi pubblicati su Nature Climate Change, uno della della Ocean University di Qingdao, Cina, l‘altro dell’Università di Bergen in Norvegia, hanno permesso di scoprire che l’aumento delle temperature a cui siamo soggetti in questo momento sta producendo degli effetti evidenti: gli sbalzi di temperatura anche nel mare si stanno riducendo perché tutto si scalda e a causa di questo i meccanismi in gioco frenano il fenomeno. Per questo il Niño atlantico calerà drasticamente, con un effetto pari al 14% entro il 2100, che può però arrivare anche al 48% se si considerano gli errori dovuti ai modelli applicati. È infatti già stato notato un indebolimento tra il 1950 e il 1999, che è diventato ancora più netto dopo il 2000.

 

Il riscaldamento dell’oceano modifica i venti

Entrambi i Niño sono fenomeni complessi, che non agiscono in base a procedure lineari ma agiscono in base a retroazioni. Quella che entra in gioco in questo caso è stata chiamata feedback Bjerknes, dal nome del meteorologo norvegese che l’ha individuata. È un feedback positivo tra la temperatura dell’oceano e la circolazione del vento, il che significa essenzialmente che i processi nell’oceano e nell’atmosfera si stimolano a vicenda per portare avanti l’evento. Il ciclo che si crea consiste in tre tipi di interazioni tra atmosfera e oceano.

 

El Niño atlantico è connesso a una distribuzione del campo di pressione sull’Atlantico, che comporta la discesa di aria fredda dalle zone artiche e dell’Islanda verso sud, fino alle Azzorre e alle coste atlantiche della penisola iberica. Questo determina un rafforzamento dei venti atlantici che soffiano verso l’Europa e che portano sul continente una grande quantità di aria umida. Umida, non fredda: l’aria umida favorisce a sua volta inverni poco rigidi ma molto piovosi.

Sull’Africa occidentale condiziona la caduta della pioggia, diminuendola nella regione del Sahel e aumentandola in quella del Golfo della Guinea. Il riscaldamento delle acque superficiali oceaniche modifica la temperatura dell’atmosfera sovrastante, il rimescolamento tra acque calde superficiali e fredde profonde si altera, dunque la circolazione equatoriale dei venti viene influenzata e con essa la distribuzione delle precipitazioni. L’anomalo rialzo delle temperature dell’acqua nell’Atlantico orientale tropicale azzera le differenze che esistevano con la parte fredda del bacino e questo indebolisce i venti che vanno da est a ovest.

L’oceano reagisce formando un’onda che viaggia dall’Equatore verso est e che condiziona la distribuzione verticale delle acque rendendo maggiore la differenza di temperatura tra quelle superficiali e quelle profonde. Questo porta a un aumento di calore nella parte est che fa ripartire la sequenza. Le precipitazioni europee crescono in modo anomalo, mentre si riducono quelle collegate ai monsoni indiani. Nella costa Usa verso il nostro continente porta inverni rigidi e secchi. 

 

Il riscaldamento dell’Oceano

Uno dei fattori responsabili di questo cambiamento, dicono gli studiosi, potrebbe essere il rapido riscaldamento dell’Oceano Atlantico superiore sia nella parte est che in quella ovest, che ha portato a una modificazione della profondità dell’isoterma, che corrisponde a 20 gradi che si spinge anche di 30 metri più in basso. Un altro dipende dal fatto che a causa del calore la troposfera media, a circa 6 mila metri di altitudine, si riscalda più velocemente che la superficie terrestre, provocando una stratificazione anomala.

 

Gli effetti del cambiamento climatico

Tutto questo porta a una minore frequenza nella presenza dei due estremi che rallenta l’effetto di feedback Bjerknes. I venti sono meno sensibili perché c’è una situazione più uniforme e non c’è più grande differenza di temperatura tra profondità e superficie perché lo strato superiore si espande verso il basso. Il risultato è che l’indebolimento modificherà le fasi di pioggia e siccità in Europa, Asia e Africa, con probabili conseguenze anche sulla raccolta del pesce.

 

Quello che invece sta accadendo dall’altra parte del mondo è tutto il contrario. Anche il rapporto Ipcc del 2021 ha fatto notare che il più ”classico” El Niño, e il suo effetto riscaldante, si amplificherà nel corso del prossimo secolo, qualsiasi sia il livello di emissioni al quale ci attesteremo.

La Niña, che porta a un raffreddamento sta invece diminuendo. Il numero degli eventi e la loro frequenza è aumentato, dunque aumentano le ondate di siccità e calore sul Pacifico occidentale e in particolare in Australia, aumenta il rischio di alluvioni in Sud America. Ora che abbiamo visto come El Niño atlantico si sta trasformando, dicono gli scienziati, bisognerà vedere come questi cambiamenti si propagheranno nel sistema climatico globale.