Terra, famiglia e identità: è il mondo in cui si muove la regista Carla Simón in “Alcarràs – L’ultimo raccolto”, un piccolo grande film, che esce ora in sala dopo aver meritato l’Orso d’oro all’ultima Berlinale. In un piccolo villaggio della Catalogna, Alcarràs, la famiglia Solé coltiva un florido frutteto di pesche con dedizione e impegno. Dalla generosità di questi alberi dipende tutta la loro vita. Le giornate nei campi scorrono tranquille e apparentemente serene, nonostante la fatica. Il lavoro duro non spaventa e coinvolge ben tre generazioni, nonni, figli e nipoti. Tutti stretti in un simbiotico rapporto che crea una comunità familiare dove tutto viene condiviso.

La famiglia non è ricca, non è proprietaria della terra che lavora (il nonno non ha mai firmato carte e si è fidato di strette di mano che oggi non hanno più valore), e nonostante tutto le attività consentono una vita normale, dignitosa e senza preoccupazioni. Anche se la crisi economica e lavorativa è alle porte e nel piccolo paese i lavoratori si riuniscono per rivendicare i propri diritti. Tutto appare, nonostante tutto, comunque in armonia.

And finally, the moment we’ve all been waiting for: The Golden Bear for Best Film goes to… “Alcarràs” directed by Carla Simón and produced by María Zamora, Stefan Schmitz, Tono Folguera, Sergi Moreno. Our dearest congratulations! ????? pic.twitter.com/SgFqLiZiN7

— Berlinale (@berlinale) February 16, 2022

E i pranzi, le giornate insieme, i tuffi nella piccola piscina familiare, rinsaldano i legami di sangue. Anche i conflitti generazionali, che avevano caratterizzato i film sul mondo rurale negli anni Settanta in Italia, uno su tutti, “Padre Padrone” (1977) dei fratelli Taviani, qui non emergono con forza, anzi, Roger, il figlio più grande, scalpita per entrare a pieno titolo nell’attività aziendale. Così come vuole fare la ventunenne Nica, già vista in “Semina il vento” (2020) di Daniele Caputo, pronta a combattere per difendere la terra della quale ha deciso di occuparsi evitando l’abbattimento degli ulivi. A rompere l’equilibrio dell’azienda agricola Solé è la decisione del proprietario di convertire il terreno per istallare un impianto di pannelli solari, attività sicuramente più redditizia di quella agricola. I saperi essenziali per la vita della famiglia, che potrebbe continuare comunque a vivere nella fattoria lavorando di meno e guadagnando di più, vengono messi in discussione. “Sono un contadino, non un tuttofare”, risponde Quimet, il capofamiglia al ricco Pinyol che cerca di convincerlo che tra pesche e pannelli non ci sia differenza. Tra favorevoli e contrari, in famiglia tutto si sfalda.

Non è la lotta tra innovazione e tradizione è piuttosto la paura di un radicale cambio di vita, il rifiuto di mettere in pericolo l’equilibrio che ci lega alla terra, la paura inconscia di un deficit ecologico. L’albero di fico che ha nutrito la famiglia Solè in tempo di guerra, ora destinato a essere abbattuto per dare spazio ai pannelli, è il fratello di quello di Grottole che Ioris Ivens ha raccontato nel documentario “L’Italia non è un paese povero” (1997), sacrificato per far posto alle attività estrattive in Lucania negli anni Sessanta. Passano i decenni, cambiano le attività ma ancora si chiede il confinamento progressivo del verde e della campagna.

Il contrasto che Carla Simón propone è ancora più dirompente. L’acquisto di terreni agricoli per convertirli in impianti fotovoltaici o eolici è un fenomeno che da qualche anno si verifica anche sui nostri territori. L’esigenza di incrementare la produzione di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, principalmente solare ed eolica, richiede l’nistallazione di nuovi impianti e quindi la ricerca di nuovi terreni. Un processo irrinunciabile, visto che le rinnovabili hanno un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico,  ma che non deve mettere sotto stress il modello culturale e sociale contadino. Il tema è più che mai attuale: lo sviluppo degli impianti per l’energia rinnovabile è compatibile con la difesa del paesaggio e l’uso agricolo del suolo? L’agrivoltaico ora in fase di sperimentazione sarà la risposta allo sviluppo sostenibile per l’agricoltura che verrà?

“Alcarràs – spiega Carla Simón – è proprio il paese dove la mia famiglia da generazioni coltiva le pesche. Quando mio nonno è morto qualche anno fa, i miei zii hanno ereditato la terra e la sua cura. Il dolore per la sua perdita mi ha spinta a dare valore alla sua eredità e agli alberi che coltivava, consapevole che un giorno avrebbero potuto sparire. È così che è nata l’idea del film”.

La famiglia Solé potrebbe vivere nelle nostre campagne e le loro vicende potrebbero essere quelle dei nostri agricoltori. Come del resto nel cinema della Simón si rileggono alcune delle pagine migliori del cinema rurale ed ecologico italiano. E quindi il suo cinema è sicuramente anche il nostro. Come la poesia, da condividere con Alice Rohrwacher, o come la scelta di fedeltà ai luoghi, al dialetto e all’utilizzo di attori non professionisti che colloca la regista catalana accanto a Olmi, Diritti, Whinspeare, e più recentemente a Carbonera.

 

“Mi sono innamorato di “Estate 1993”, il primo film di Carla Simón, confessa Giovanni Pompili che con la sua Kino Produzioni ha coprodotto Alcarràs – sono rimasto affascinato dalla sua personalità artistica e dal suo modo contemplativo, profondo e onesto di usare la macchina da presa. Letta la sceneggiatura di Alcarràs, mi ha colpito la capacità di sviluppare un racconto politico che però parta dall’intimo e dalle relazioni familiari, capace di parlare a tutti. È un film universale”.