“L’emigrazione dal nord, specie dalla Lombardia, è una novità. Da lì si partiva verso le Americhe oltre un secolo fa e oggi si è tornati ad andar via con numeri che solo la Sicilia eguaglia, benché i motivi di fondo siano diversi”. Enrico Pugliese, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma e in passato direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr, lo racconta con voce bassa, scandendo le parole. Originario di Cosenza, classe 1942, ha al suo attivo diversi saggi sul tema, fra i quali l’ultimo: Quelli che se ne vanno, la nuova emigrazione italiana. “Il punto è che in Italia si emigra come non accadeva da tanto tempo”, prosegue. “C’è una trasversalità che abbraccia le classi benestanti e quelle che lo sono meno, tutte colpite dalla continua diminuzione degli stipendi e dalla precarizzazione del lavoro. Nelle aree lontane dalle metropoli, prive di servizi essenziali, il fenomeno è ancora più forte. E le conseguenze saranno profonde, aggiungendosi all’impatto economico causato dal cambiamento climatico“. 

Si dice che la nuova emigrazione sia giovanile e scolarizzata. Secondo Pugliese è vero solo in parte. Benché sia una componente del nuovo volto di un fenomeno antico, a lasciare il Paese sono prevalentemente i non scolarizzati. Se guardiamo in particolare a Milano, Bergamo e Brescia, dove ovviamente c’è anche il fenomeno dell’immigrazione a bilanciare, si va via perché l’offerta di lavoro è nel terziario avanzato e comunque non è abbastanza. Con una aggravante: la migrazione di rimbalzo che ricorda gli anni Cinquanta: si cresce al Sud, si fa tappa a Milano per studiare magari economia e ingegneria, si va all’estero dato che gli stipendi sono più alti e il costo della vita equiparabile. Contribuisce, almeno in parte, la crescita degli affitti nelle città, – non solo nel capoluogo lombardo – dove hanno raggiunto prezzi insostenibili, e dall’altro il sottoimpiegare chiunque. Il racconto diventato virale di Ornela Casassa, ingegnere ventottenne di Chiavari, che a Genova si è vista proporre una collaborazione da 900 euro lordi dopo il tirocinio a 750 euro netti, è solo uno dei tanti casi.

Stagnazione e declino delle retribuzioni, spopolamento, crisi ambientale, sono alcuni dei tasselli dello scenario che si sta configurando. Va aggiunta la denatalità, il sorpasso dei pensionati sugli occupati in alcune regioni del Sud, la perdita di produttività delle aziende così poco inclini ad innovare, il crollo dei patrimoni di quella metà della popolazione che ha meno, passati da una media di 25mila euro circa degli anni Novanta agli attuali 5mila. Tutto questo ci rende una nazione fragile, specie se si presta fede alle previsioni fatte fra gli altri dal Centro comune di ricerca (Jrc) della Commissione europea: le conseguenze economiche dell’innalzamento delle temperature sull’area mediterranea saranno cinque volte superiori rispetto a quanto dovrà subire l’Europa del centro nord.

Non siamo i soli

Difficile fronteggiare una tale emergenza con un Paese che si svuota, perde ricchezza e nel frattempo si desertifica. L’unica consolazione, per modo di dire, è che la precarietà non ha investito solo l’Italia. Altrove però, come in Germania, si viene pagati di più e comunque raramente in nero. Anche lo spopolamento è un fenomeno con il quale stanno facendo i conti in tanti.

In Giappone ad esempio, davanti alla prospettiva di un declino certo del numero di cittadini, dai 125 milioni attuali a 88 nel 2065, quasi un terzo in meno, il governo ha pensato di correre ai ripari. Lo ha fatto con una mossa che non risolverà il problema del calo demografico, ma che comunque prova a invertire una delle tendenze dell’era industriale, ovvero la sempre maggiore concentrazione di persone nelle città. Le metropoli globalmente occupano circa il 2% della superficie terrestre, ma ospitano metà del gene umano e producono due terzi dell’inquinamento atmosferico. E mentre si continua a migrare verso le città, il resto viene abbandonato come sta succedendo in Giappone e in Italia.

Di qui l’offerta di circa 8mila euro per ogni figlio alle famiglie che si trasferiscono dall’area di Tokyo in altre regioni per arrestare l’emorragia di cittadini nella provincia e il continuo afflusso verso la capitale. Avevano già provato questa strada in passato ma con sovvenzioni più basse. Agli ottomila euro per ogni figlio, si sono aggiunti altri ventiquattromila euro per chi vive nei ventitré quartieri centrali di Tokyo. Malgrado la popolazione della capitale sia diminuita per la prima volta nel 2022, è diventato chiaro perfino per una politica immobile come quella giapponese che non si può continuare ad amministrare le cose come in passato. È però una strategia dalle possibilità di riuscita incerte. Come dicevamo prima, c’è infatti un rapporto diretto fra assenza di servizi e fuga dalle zone periferiche del Paese. Poco possono fare la sovvenzione diretta ai singoli cittadini, le ristrutturazioni dei palazzi, il dare le case a pochi euro, quando mancano le infrastrutture per permettere di avere una vita al passo con i tempi lontano dalle metropoli.

Più della metà dell’Italia è lontana da tutto

“Vengono definite aree interne tutte quelle zone dove è complicato raggiungere servizi essenziali come sanità, scuola e trasporti”, racconta Filippo Tantillo, romano di 54 anni, ricercatore presso l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) e autore assieme a Sabrina Lucatelli Daniela Luisi del saggio L’Italia lontana: Una politica per le aree interne.

“Si dividono in periferiche ultra periferiche e sono quelle che perdono più popolazione rispetto alla media nazionale che è comunque in declino in Italia. Spopolamento e assenza di servizi sono legati a doppio filo. Parliamo di borghi come di ex distretti industriali, paesi nelle valli come in montagna, zone costiere sia al sud che al nord. Non sempre sono aree povere: la marginalità viene dalla lontananza dei servizi più che dalla tipologia geografica del territorio o dal livello del reddito della popolazione“.

 

In Francia li chiamano “territori dimenticati”, dallo Stato e dal mercato, in Spagna è la “Spagna vuota”, per gli inglesi “i territori lasciati indietro”. Sono comprese aree che svolgono o svolgevano un ruolo importante nella produzione agricola e industriale. Per quanto riguarda l’Italia, è il sessanta per cento del territorio: cinquemila comuni dove vivono fra i dodici e i quindici milioni di abitanti. Sono all’estremo opposto rispetto alle grandi città sempre più affollate, care e inquinate. Ma è una contrapposizione, la frattura fra centri e campagna, che si verifica anche in contesti come la provincia di Trento. I villaggi montani si svuotano e si riempie il fondo valle dove perfino gli asili nido sono sovraffollati. Aprire piccoli uffici postali, scuole e pronto soccorso, garantire collegamenti efficienti, portare la banda larga, ha un costo dove la densità abitativa è bassa. Fino a ieri si sarebbe potuto sostenere che non ne valeva la pena, oggi però il prezzo di non farlo potrebbe essere anche più alto. E i fondi in teoria li avremmo, come vedremo più avanti.

Perché è anche una questione ambientale

Stando alle proiezioni del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), la crisi climatica porterà cambiamenti profondi nell’agricoltura, nel turismo e probabilmente anche nel settore immobiliare, producendo come effetto un ulteriore svuotamento di alcune delle zone già colpite dal fenomeno dell’emigrazione. Rispettivamente da noi questi tre settori valgono il 12%, 13% e 15% del prodotto interno lordo. Ne abbiamo già parlato in passato, ma riassumiamo alcune cifre. 

Nell’agricoltura lavorano circa un milione di persone, in diminuzione di 32 punti percentuali rispetto ai valori del 2000. Già cinque anni fa l’Istat avvertiva che “gli eventi sfavorevoli connessi ai cambiamenti climatici, che ormai si presentano in modo ricorrente, hanno pesantemente condizionato la performance del settore, determinando una diminuzione della produzione”. Bisognerà puntare su maggiore efficienza e innovazione, in certi ambiti si può adottare l’acquaponica e l’idroponica, che permettono di produrre ortaggi usando un decimo dell’acqua dell’agricoltura tradizionale e un quinto della terra. In ogni caso molte colture dovranno essere spostate verso nord e ad altitudini maggiori virando su mais, girasole e soia. Ci sarà infatti un calo quantitativo e qualitativo della produzione di uva e olive nel sud dell’Italia. In parte compenserà la produzione di frumento, riso e orzo. Nell’allevamento di bestiame, a causa del caldo, si assisterà in generale ad una maggiore diffusione delle malattie e ad una decrescita del rendimento.

 

Dal turismo viene il 13% del nostro prodotto interno lordo. Quello balneare genera la maggior parte delle presenze, con il 31%. Seguono le città d’arte, con il 25% delle presenze, e il turismo montano con il 13%. Con l’aumento delle temperature si prevede uno spostamento verso maggiori latitudini e altitudini, mentre i turisti provenienti dai climi più temperati trascorreranno sempre più tempo nei loro Paesi d’origine. “È probabile, inoltre, il verificarsi di un mutamento anche a livello stagionale, con la crescita dell’afflusso di turisti verso le coste nei mesi in cui la temperatura dell’aria e dell’acqua non saranno troppo calde, quindi dai mesi caldi estivi verso i mesi primaverili e autunnali”, recita uno dei rapporti del Cmcc. Sempre più turisti stranieri sceglieranno destinazioni meno afose delle nostre, mentre sempre più turisti italiani resteranno in Italia invece di fare le vacanze in luoghi ancora più caldi. Ma il saldo sarà negativo, anche perché parte degli italiani contribuirà al flusso verso Paesi storicamente freddi. Il fenomeno non sarà uniforme, è però molto probabile che le più colpite saranno le aree costiere.

Per il turismo invernale, la vulnerabilità ai cambiamenti climatici si esprime nella Linea di Affidabilità della Neve (Lab), quell’altitudine che garantisce spessore e durata sufficienti dell’innevamento stagionale e quindi la praticabilità degli impianti sciistici. Con un aumento medio di oltre un grado centigrado, l’attuale situazione, la presenza di neve naturale è garantita per il 75 per cento dei comprensori alpini. A quattro gradi invece, lo scenario più pessimista da qui al 2050, le stazioni sciistiche si ridurrebbero a solo il 18% di quelle attualmente operative.

Riguardo all’immobiliare, bisognerebbe chiedersi se i prezzi per metro quadro raggiunti da alcuni quartieri di alcune grandi città e all’estremo opposto la perdita di valore nelle aree interne, sia un fenomeno positivo. Due terzi delle famiglie italiane vive in case di proprietà. Alcune di queste hanno visto il valore dei loro immobili crescere negli anni, a differenza degli stipendi, molte altre si sono ritrovate per le mani abitazioni che non hanno alcun mercato. In fatto di valore a metro quadro i centri più cari d’Italia sono alcune aree di Cortina, Portofino e Capri. Milano, fra Scala, Manzoni, Vittorio Emanuele e San Babila, è al sesto posto. Roma, nell’area di Piazza Navona, è all’undicesimo. All’altro capo della classifica Poggioreale, Salaparuta, Gibellina, tutte in provincia di Trapani. Fra questi due estremi, con il primo cinquanta volte maggiore dell’altro, c’è l’Italia.

Non la banda larga o trasporti, ma turismo e borghi

A settembre del 2022 fece il giro del mondo la notizia dell’arrivo di poco meno di venti milioni di euro a Livemmo, in provincia di Brescia, borgo con centosettanta abitanti. Non è il solo. È entrato a far parte del gioco della gestione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), declinazione italiana di quel nuovo corso molto ambizioso, che ha fra i suoi riferimenti il New Deal immaginato da Franklin Delano Roosevelt per tirar fuori gli Stati Uniti dalla Grande depressione. Voluto dall’Unione Europea nel 2020 per fronteggiare la pandemia, intende sfruttare un’emergenza per trasformarla in una grande opportunità. Gli investimenti e le riforme del Next Generation Eu, 750 miliardi di euro, dovrebbero servire per accelerare la transizione ecologica e digitale, migliorare la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori, conseguire una maggiore equità di genere, territoriale e generazionale. A patto che le opere siano ultimate entro il 2026.

 

L’Italia ha deciso di “modernizzare la pubblica amministrazione, rafforzare il sistema produttivo e intensificare gli sforzi nel contrasto alla povertà, all’esclusione sociale e alle disuguaglianze”. Fra le soluzioni adottate c’è anche il Piano nazionale borghi nato nel 2021: un miliardo di euro che verrà speso anche per ripopolare e rilanciarne circa duecentocinquanta. Livemmo è uno dei 21 luoghi pilota o bandiera che dir si voglia, individuati da regioni e province autonome, per la prima linea di finanziamenti: 420 milioni di euro complessivi, 20 ognuno. Altri 380 milioni saranno invece divisi fra altri 228 borghi con un tetto di 1,6 milioni ciascuno. In nessun caso possono superare i 5mila abitanti. Stranamente perché uno degli obiettivi è arrestare l’emigrazione, come si legge a più riprese nel Piano, anche le cittadine con 10mila abitanti sono interessate e anzi sono quelle che rendono possibile il vivere nei borghi che sorgono nelle vicinanze. Un ultimo stanziamento di 200 milioni verrà destinato in seguito alle “imprese che svolgeranno attività culturali, turistiche, commerciali, agroalimentari e artigianali nei Comuni facenti parte della seconda linea di azione”. Gli interventi più frequenti sono la riqualificazione degli spazi comuni, la ristrutturazione di edifici, le piste ciclabili, il creare piccoli musei, ampliare la capacità ricettiva. Sulla carta si parla non solo di recupero del patrimonio storico artistico di questi luoghi ma dell’individuazione di una vocazione specifica.

 

Per Rocca Calascio, in Abruzzo, si cita il portare servizi elementari totalmente mancanti, una carenza indicata come fra le cause dello spopolamento, che è poi il fenomeno che si vuole combattere. Rocca Calascio è un antico castello a 1400 metri di altitudine raggiungibile in macchina da l’Aquila in 45 minuti. Sicuramente merita di essere restaurato, ma farne un luogo dove andare ad abitare è un obiettivo forse irrealistico.

Monticchio Bagni, con i suoi 250 abitanti circa, è un altro dei 21 borghi da 20 milioni di euro. In provincia di Potenza, con l’Abbazia di San Michele Arcangelo, un castello, la riserva naturale del Lago Piccolo di Monticchio, ha due produzioni di acqua minerale. Si vorrebbe attrarre residenti a “medio termine” con la creazione di spazi di coworking, laboratori e incubatori di start-up in collaborazione con l’Università della Basilicata, guardando ai fenomeni del “nomadismo digitale” e del “south-smart working”. Il riferimento è al movimento nato durante la pandemia del South Working, creato da alcuni ricercatori italiani sparsi per l’Europa che volevano porre le basi per poter continuare a lavorare a distanza tornando per periodi più o meno lunghi nelle loro terre di origine dove i costi sono più bassi e in alcuni casi la qualità della vita più alta, a patto di avere alcuni servizi essenziali come un buon collegamento alla Rete e la vicinanza ad un aeroporto o una stazione ferroviaria ben servita. La storia di questo progetto la trovate qui sotto. Ebbe come prima ipotesi quella di collaborare con il comune di Palermo per ottenere le infrastrutture necessarie affinché si potesse ospitare il primo progetto pilota. Monticchio Bagni dista un’ora circa di macchina da Avellino, Foggia o Potenza e stando a Google Maps non ci sono mezzi pubblici che lo raggiungono. Si sbaglia. Da Potenza c’è un bus e c’è anche da Melfi. Ma certo, non è esattamente un luogo facile da raggiungere.

Il turismo, e i festival che si intende organizzare in alcune località, sono uno sbocco facile perché passano per la sola ristrutturazione di alcuni edifici e l’ampliamento della capacità ricettiva. In un villaggio che ha carenza di abitanti, i visitatori possono portare dei benefici ma è più alta la probabilità che quei soldi spesi per l’accoglienza abbiano un ritorno relativo. “Nel settore del turismo la competizione è forte, e si tratta comunque di un ecosistema fatto di tanti tasselli”, sottolinea Tantillo. “E poi le economie a vocazione unica sono fragili di per sé. Bastano una o due stagioni sbagliate per distruggere le attività messe in piedi”.  

 

Proviamo a contattare il sindaco di Arvier in Valle d’Aosta, Mauro Lucianaz, altro borgo da prima linea di investimenti. Da quel che sappiamo espresse perplessità per questi fondi, non avendo nei suoi uffici personale e competenze per gestirli. Non ha mai risposto al telefono né alle mail.

Quando, nel 2013, eravamo all’avanguardia

E pensare che in Italia avevamo capito già nel 2013 che la partita doveva essere giocata in una maniera diversa. L’allora ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, creò la Strategia nazionale per le aree interne (Snai). L’idea era di potenziare la dotazione di servizi essenziali in modo da contrastare lo spopolamento e assicurare dignità e vivibilità agli italiani delle aree interne. Era già la “città da 15 minuti” applicata alle periferie del Paese per rafforzarlo nel suo complesso e “non lasciare indietro nessuno”, come avrebbero poi detto a Bruxelles più di recente presentando il Next Generation Eu. Lo Snai, che era all’avanguardia e al quale lavorò lo stesso Filippo Tantillo, non è andato molto lontano anche se è almeno riuscito a realizzare una mappa delle aree interne. Per assenza di fondi e di volontà politica, dalle zone poco abitate arrivano evidentemente pochi voti, sono stati lanciati solo alcuni progetti pilota. E, come ha ammesso lo stesso Barca, molti si sono arenati per l’assenza di personale e di competenze nelle amministrazioni locali. Grossomodo la stessa cosa che sta accadendo ora con tanti progetti legati al Pnrr, purtroppo al di là dei borghi. Uno studio recente di Bankitalia, sostiene che per portarli a termine mancano all’appello poco meno di 400mila persone fra operai, informatici, consulenti legali, esperti in ricerca e sviluppo, tecnici.  

 

Tornando allo Snai, si scelse fra le altre cose di sostenere la diffusione della banda larga, che ancora oggi manca a milioni di persone, e alcuni servizi di telemedicina e medicina di prossimità, ovvero la possibilità di essere visitati periodicamente a distanza da specialisti e da personale medico che invece incontrava i cittadini presso le loro abitazioni per controlli di prevenzione o per interventi di primo soccorso. Si volevano anche istituire dei presidi ospedalieri per gestire i casi meno gravi che potessero servire diversi villaggi. Per i trasporti pubblici si tentò di renderli integrati, coordinare orari di autobus e treni, più una serie di collegamenti attivabili a richiesta coinvolgendo più cittadini che dovevano recarsi in un centro abitato più grande. È una delle soluzioni immaginate anni dopo in Israele proprio per collegare le zone più remote.

 

Alla EcoMotion di Tel Aviv, comunità israeliana formata da oltre seicento giovani aziende impegnate sul fronte della mobilità, avevamo infatti chiesto come si poteva immaginare un futuro anche per le zone al di fuori delle metropoli in fatto di nuova mobilità. L’allora presidente, Eviatar Tron, rispose che secondo lui le forme molto avanzate di movimento di merci e persone sarebbero restate appannaggio dei centri urbani. Altrove si poteva forse immaginare un modello su richiesta: mezzi per raccogliere i singoli passeggeri aggregando la domanda in base al tragitto così da avere la garanzia che i veicoli viaggino pieni.

 

Il progetto è rimasto sulla carta qui come a Tel Aviv. Non hanno aiutato i tanti tagli orizzontali dei costi da parte dello Stato, perché a pagarli sono state soprattutto le aree interne, anche in termini di personale e competenze. Prendete le scuole. Accorparne due in una metropoli può voler dire per uno studente dover passare alcuni minuti in più in autobus o in macchina. In altre zone può invece significare costringerli a raggiungere un istituto che è a quaranta minuti o un’ora in più di distanza. Nel frattempo però nel centro e nord Europa hanno preso ad adottare misure simili a quelle progettate dallo Snai, ma su larga scala con una perseveranza sensibilmente maggiore della nostra.

Quel che resta della strategia del 2013

Nel Piano nazionale borghi qualcosa dello Snai sopravvive, così come nel Pnrr, dal quale il piano ha origine e che è diviso a sua volta in sei missioni principali. I borghi fanno capo alla prima missione, intitolata Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo. Nella cosiddetta componente 3, Turismo e cultura 4.0, per la quale sono previsti 6,6 miliardi di euro, si fa riferimento ai borghi. Il richiamo ad una strategia per il ripopolamento è parte anche di un altro filone del Pnrr, la quinta missione nel capitolo intitolato “Strategia nazionale per le aree interne” da 800 milioni di euro. Si legge che le “aree interne costituiscono circa tre quinti dell’intero territorio nazionale, distribuite da Nord a Sud, e presentano caratteristiche simili: grandi ricchezze naturali, paesaggistiche e culturali; distanza dai grandi agglomerati urbani e dai centri di servizi; potenzialità di sviluppo centrate sulla combinazione di innovazione e tradizione”.

 

Avendo la necessità di costruire infrastrutture e portare servizi lì dove non ci sono, si menzionano sia i collegamenti con i centri urbani sia la sanità e si parla di consolidamento delle farmacie rurali convenzionate dei centri con meno di 3mila abitanti per renderle strutture in grado di erogare servizi sanitari territoriali. Qui però si interviene con un finanziamento del 50%, il resto lo dovranno mettere i privati a patto che abbiano interesse a farlo in zone che sono evidentemente poco abitate e che lo sono sempre di più.

 

Viene in mente che le due cose, i fondi per i Borghi e quelli della Strategia nazionale per le aree interne, si sarebbero potute combinare in un quadro più organico, tenendo conto della portata del fenomeno dell’emigrazione e di quel che tutta l’Italia, ma soprattutto il sud, dovrà affrontare. Con l’aggiunta di un altro possibile altro tassello, la pubblica amministrazione, che se riorganizzata potrebbe in teoria aiutare a colmare l’assenza di personale nelle sedi più piccole.

Una pubblica amministrazione diffusa

“Nel Pnrr si parla di digitalizzazione della pubblica amministrazione. E questo significa che molte pratiche dell’intero territorio nazionale potrebbero e in parte già oggi possono essere gestite ovunque, anche da uffici sparsi nelle aree interne”. Marco Carlomagno, napoletano di 64 anni, segretario generale della Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche (Flp), su questo argomento torna spesso. Quando gli parliamo dello spopolamento dell’Italia e dei rischi impliciti che questo comporta, non mostra sorpresa. 

In cinque anni abbiamo probabilmente perso più di cinque milioni di persone che se ne sono andate all’estero, alcune delle quali perché qui non facevano altro che prendere pesci in faccia. Anche nella pubblica amministrazione stiamo assistendo a concorsi nei quali il personale con i requisiti necessari non si trova perché si offrono stipendi ridicoli. Riguardo alla fuga dalle aree interne, qualcosa in più si potrebbe fare se adottassimo un lavoro agile più intelligente, ma bisognerebbe passare dall’attuale uno o due giorni a settimana, a cicli da tre settimane da remoto e una in presenza. O ancor meglio distinguere in base alle funzioni, alcune infatti non hanno bisogno di una sede centrale ma solo di un ufficio dove appoggiarsi quando necessario. Questo permetterebbe ai dipendenti di andare ad abitare in zone dove la vita costa meno e che appunto sono colpite dall’emigrazione. E aiuterebbe a far aumentare il potere di acquisto degli stipendi che ormai in città come Roma o Milano non bastano più”.

 

Per altro gli uffici pubblici sono tanti e su tutto il territorio. Un centro di servizi dell’agenzia delle entrate a Pescara lavora le pratiche per tutto il Paese. E allora, dicono alla Flp, perché non decentrare trasferendo alcune funzioni in città più piccole. Si creerebbe un tessuto socioeconomico migliore.

 

“Ci sono oggi strutture centralizzate che non hanno molto senso come il Provveditorato alle opere pubbliche di Lombardia e Emilia Romagna che è a Milano”, prosegue Carlomagno. “A Napoli si gestisce Campania, Puglia, Basilicata e Molise con tutto quello che ne consegue in fatto di spostamenti per andare poi nei luoghi dove bisogna essere”. Insomma, una pubblica amministrazione redistribuita mettendo in comune le risorse in modo che in certo ufficio in una certa area si possa lavorare per un’altra istituzione che magari ha una sede centrale altrove.

 

Stiamo però andando in un’altra direzione. In piena pandemia a lavorare da remoto in Italia erano circa sei milioni e mezzo di lavoratori mentre adesso, stando sempre all’Inapp, a farlo sono in meno di tre milioni. Il Politecnico di Milano, poco tempo fa, aveva parlato di 3 milioni e mezzo. Si torna indietro, a ritmi serrati. Nella pubblica amministrazione sarebbero circa 560mila a praticare il lavoro in remoto, ma in realtà è in corso una dismissione perché molti fanno un solo giorno a settimana. Non c’è nulla dello smart working vero e proprio. Del resto, l’ex ministro Brunetta aveva imposto una prevalenza in presenza, senza badare ai compiti che si devono svolgere.

Bisogna infine tenere presente una cifra: due miliardi e quattrocento milioni di chilometri percorsi in un anno, come fare la spola fra la Terra e la Luna 6mila volte. Li potremmo evitare se in Italia le persone che possono lavorare da casa, per metà della settimana non si recasse in ufficio. Avremmo inoltre un risparmio a testa fra pedaggi, carburante e manutenzione del veicolo, di 330 euro per un totale complessivo di un miliardo e cento milioni di euro. Senza dimenticare le oltre 300mila tonnellate di CO2 che non finirebbero nell’atmosfera.

 

Il miraggio di un’alternativa alla concertazione nelle grandi metropoli

L’architetto Rem Koolhaas a febbraio del 2020, aprendo la mostra Countryside, the future, ha sostenuto che quel 98% di territorio non occupato dalle città sia il vero nuovo centro. Vedeva in quella parte di campagna ormai connessa alle infrastrutture, che vive però all’ombra, un territorio nevralgico e vitale. Un modo per mettere in discussione l’inevitabilità dell’urbanizzazione totale.

 

Non ha tenuto conto dell’emigrazione forse, e purtroppo è un fenomeno progressivo. “Lo spopolamento crea spopolamento“, conclude Enrico Pugliese. “Se chiude una bottega in un villaggio e apre un supermercato a trenta chilometri di distanza, chi non guida andrà via e per farlo tornare o far arrivare qualcun altro serve uno sforzo notevole”.

 

L’Italia è un Paese di centri medio piccoli. Su 7mila comuni solo 100 hanno più di 60mila abitanti. Roma e Milano sono le uniche che superano il milione, seguite da Napoli, Torino e Palermo. Alcuni di questi paesi o cittadine sono ricche, come certi comuni nel milanese fra i primi dieci per il livello di reddito pro-capite, ma la maggior parte non lo sono e non potranno mai esserlo se sono tagliate fuori da tutto.