“Dobbiamo ritrovare l’equilibro perduto. Una volta gli esseri umani vivevano in equilibrio con la Natura, con le altre creature. Ora l’avidità ha prevalso sulla necessità”. Da anni lo scrittore indiano Amitav Gosh analizza il rapporto tra umanità e ambiente. Lo fa nei suoi romanzi, lo ha fatto in un saggio dirompente come La grande cecità, in cui accusava i suoi colleghi intellettuali di non vedere l’emergenza climatica che pure avevano davanti agli occhi. Torna a farlo col suo ultimo libro Jungle Nama (Neri Pozza), una favola ambientata nelle Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del mondo, tra India e Bangladesh: esseri umani che si avventurano tra gli alberi per cercare qualcosa di prezioso, il miele, e una divinità sotto forma di tigre che sparge il terrore.

Una metafora della Natura che si vendica quando è sfruttata senza limiti. E un atto d’accusa verso l’Occidente, principale responsabile della crisi che stiamo affrontando. Gosh in una recente intervista al Guardian lo ha detto esplicitamente: “Il colonialismo europeo ha contribuito ad ammalare il Pianeta”. È stato altrettanto diretto quando lo abbiamo incontrato a Roma, ospite dell’Open Summit di Green&Blue.

Perché una favola illustrata per rilanciare l’allarme ambientale?

“A noi Jungle Nama può sembrare una favola, ma non lo è per chi vive ai margini della foresta di mangrovie dove la vicenda ha origine: è parte della loro vita. È una storia che si tramanda da generazioni e che insegna alle persone come vivere nella foresta rispettando le altre creature. Lo definirei folklore ecologico”.

Che cosa spinge gli uomini a violare la foresta per fare incetta di miele?

“L’avidità. Il miele ha lo stesso colore dell’oro. Eppure, ciò che oggi accade nelle Sundarbans per me è commovente, perché nonostante tutto le popolazioni locali, anche se poverissime, rispettano la foresta di mangrovie e non vi entrano se non ne hanno assoluto bisogno. Per questo il vero tema del libro è l’urgenza di un ritorno all’equilibrio tra necessità e avidità”.

Il suo impegno ambientalista è diventato evidente con La grande cecità, uscito in Italia nel 2017. In questi anni è cambiato qualcosa nella percezione dell’emergenza climatica?

“Ci sono stati grandi cambiamenti, nel mondo della letteratura e più in generale in quello della cultura. L’anno cruciale è stato il 2018: ci furono molti eventi estremi riconducibili all’emergenza clima e le persone, artisti compresi, iniziarono a capire cosa stava accadendo. Oggi sempre più intellettuali si occupano di questi temi, anche perché non ci si può più sottrarre”.

Dagli intellettuali alla politica: i governi hanno la giusta percezione del problema? Lei ha seguito Cop26: le sembra che si siano prese le decisioni necessarie?

“Ero tra i tanti che non nutrivano grandi aspettative per Cop26. E quindi non sono rimasto troppo deluso dai risultati. Però ho visto qualcosa di meraviglioso che mi ha molto colpito: la grande partecipazioni degli attivisti. A Glasgow hanno dimostrato che le loro voci e le loro proteste non possono più essere ignorate. E non mi riferisco solo ai movimenti ‘occidentali’, ma anche a chi ha sempre faticato a farsi ascoltare, ai popoli indigeni, a quelli del Sud del mondo. Per il resto, si è trattato delle classiche trattative diplomatiche, in questo caso guidate dal governo britannico. Di accordi che si focalizzano su finanza ed energia e finiscono per favorire chi è già miliardario. Ritengo stupefacente che siano personaggi come Bill Gates o Jeff Bezos ad aver voce in capitolo sull’emergenza climatica, piuttosto che gli scienziati o gli attivisti. È un approccio neoliberista al riscaldamento globale”.

A proposito di colonialismo climatico: nei minuti finali di Cop26 è andato in scena un duro scontro tra la presidenza britannica della Conferenza e il governo indiano su che espressione usare nel documento finale: uscita dal carbone o diminuzione dell’uso del carbone. È stato anche uno scontro tra ex colonizzatori ed ex colonie? Tra chi ha bruciato carbone per secoli e chi ora dice: tocca a noi?

“In realtà credo si sia trattato di un caso di goffaggine diplomatica da parte del governo indiano. Le delegazioni di Stati Uniti e Cina erano già d’accordo nel sostituire l’espressione phasing out con phasing down: non c’era bisogno che l’india suonasse la grancassa sull’argomento. Va pure detto che negli ultimi mesi il governo indiano ha concesso oltre 50 nuove licenze per miniere di carbone. E questo è un disastro per le foreste e per le persone che le abitano. Ma tanti Paesi fanno lo stesso: l’Australia è il più grande esportatore mondiale di carbone. E negli Usa l’amministrazione Biden continua a concedere licenze di estrazione. Però sono molto bravi nel greenwashing: fanno l’opposto di ciò che è necessario ma in modo meno visibile”.

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Come se ne esce? Come si può ritrovare l’equilibrio perduto?

“È assolutamente necessario un colossale investimento delle nazioni ricche in Paesi come l’India, perché possano evitare di aprire nuove miniere di carbone, perché si dotino di sistemi alternativi per produrre elettricità, perché possano accedere alle più moderne tecnologie rinnovabili“.