Riposa sul fondo del mare, testimone di un naufragio di ottant’anni fa. E fa parte dell’ecosistema, ospitando  – nei suoi mille anfratti – pesci e molluschi. Ma il relitto dello storico peschereccio “V-1302 John Mahn”, affondato nel 1942 nel Mare del Nord durante l’operazione “Cerberus”, continua a inquinare. E come lui le migliaia di imbarcazioni che riposano sui fondali dei mari di tutto il mondo, compreso il Mediterraneo. È quanto emerge dalla ricerca di un gruppo di ricercatori belgi, appena pubblicata sulla rivista scientifica Frontiers in Marine Science con il titolo “80 years later: Marine sediments still influenced by an old war ship”.

Lo studio, effettuato nell’ambito del progetto “North Sea Wrecks” (letteralmente, relitti del Mare del Nord) ha dimostrato come il relitto stia ancora disperdendo in mare inquinanti pericolosi, in particolare metalli pesanti, sui sedimenti del fondale oceanico. Con effetti potenzialmente nocivi sugli ecosistemi. E soprattutto suggerisce di valuta con urgenza l’opportunità di una bonifica, laddove possibile, delle centinaia di relitti di navi e aerei, nonché di proiettili e bombe ancora depositati sui fondali del Mare del Nord, indagato dal team di ricerca, e dei mari di tutto il mondo. I cui effetti sulla biodiversità e sulla salute degli ecosistemi sono spesso sottovalutati.

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“Proprio così. – conferma Maarten De Rijcke, tra gli autori dell’articolo, ricercatore al Flanders Marine Institute di Oostende, in Belgio – Anche se le concentrazioni di inquinanti che abbiamo rilevato attorno a questo relitto non sono particolarmente rilevanti, almeno cento volte al di sotto dei livelli considerati tossici, i nostri risultati sono particolarmente significativi per il Mare del Nord perché in grado di suggerire ai responsabili politici che questi relitti non sono solo oggetti dall’enorme valore culturale e storico, ma anche fonte di potenziali rischi ambientali a lungo termine“.

Per dimostrarlo i ricercatori hanno rilevato metalli pesanti (nichel e rame su tutti), tracce di esplosivo, arsenico e idrocarburi aromatici policiclici (IPA o PAH dall’inglese), composti naturalmente presenti nel petrolio o nel carbone, campionando sedimenti e acqua in direzioni e a distante differenti dal relitto, un peschereccio tedesco requisito nel corso della Seconda guerra mondiale per essere utilizzato come motovedetta e inabissatosi davanti alla costa belga a seguito di un attacco dell’aviazione britannica.

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Inesorabile la conferma dell’ipotesi di partenza: “Abbiamo la conferma che i relitti abbandonati sui fondali marini, al netto della loro funzione di barriera artificiale e del loro valore narrativo come testimoni storici, possono essere considerati pericolosi, motivo per il quale oggi si procede alla loro rimozione immediata”, spiega Josefien Van Landuyt dell’Università di Gand, tra gli autori della ricerca.

Ma la rimozione di quelli storici è senz’altro più complessa. “Stimiamo che i relitti della prima e della Seconda guerra mondiale in tutto il mondo contengano complessivamente tra i 2,5 ei 20,4 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi”, rilevano i ricercatori. Molti di loro sono invisibili. Ma non per questo le loro ricadute sull’ambiente sono meno significative. “La loro età avanzata amplifica il rischio ambientale dovuto alla corrosione: in molti casi si generano fratture e si aprono spazi finora chiusi. Possiamo parlare dunque di un impatto ambientale in continua evoluzione”. Quanto bisogna preoccuparsi? Un altro studio, condotto da una serie di partner del progetto North Sea Wrecks con un focus di dettaglio sugli esplosivi abbandonati nei mari, ha evidenziato – sottolinea Maarten De Rijcke – che “la fauna ittica assorbe nei tessuti tracce di TNT, con concentrazioni tuttavia ancora rassicuranti, perché 300 volte inferiori a quelle nocive per l’essere umano. Si tratterebbe quindi di pesci sicuri da mangiare”.

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E nel Mediterraneo cosa accade? “Accendere la luce sul potenziale impatto di relitti e armi abbandonate sui nostri fondali sarebbe più che opportuno per sviluppare una mappatura del rischio di contaminazione delle biomasse e comprendere, per esempio, i costi a lungo termine di una guerra –  sottolinea Roberto Danovaro, già presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn, che insegna Ecologia Marina all’Università Politecnica delle Marche – Ciò detto, è fondamentale distinguere tra affondamenti accidentali e affondamenti apparentemente accidentali, che in realtà non lo sono, e su cui non di rado abbiamo tentato di accendere i riflettori. Nel primo caso, la pericolosità del relitto è tendenzialmente legata al contenuto di ciò che trasporta. Qualora siano sostanze tossiche o addirittura radioattive, come pure è capitato, è la salute dei nostri ecosistemi e di noi stessi a essere a rischio ed è per questo che la comunità scientifica non può che auspicare il finanziamento di studi come quello effettuato in Belgio. Non mancano, d’altro canto, relitti che non inquinano e attorno ai quali si è anche sviluppato nel tempo, complice la biomassa che ci vive, un turismo subacqueo rilevante. Anche per questo non c’è altra soluzione che approfondire. Quanto prima”.