Nell’Iran di oggi puoi finire in prigione anche perché lotti per salvare una specie dall’estinzione. È il 24 gennaio del 2018 quando otto ricercatori, tra cui due donne, appartenenti alla Persian Wildlife Heritage Foundation, un’organizzazione non governativa basata a Teheran e specializzata nella conservazione dei grandi carnivori, vengono arrestati dalla polizia iraniana con l’accusa di minacciare la sicurezza nazionale svolgendo attività di spionaggio. I ricercatori stavano raccogliendo dati sul campo per un progetto di salvaguardia del ghepardo persiano Acinonyx jubatus venaticus, una sottospecie a rischio critico di estinzione, ridotta a non più di 50 esemplari, tutti in territorio iraniano. La presenza dei ghepardi veniva registrata mediante l’utilizzo di fototrappole, attrezzature ormai di uso comune in tutto il mondo, anche per il loro costo contenuto che le rende utilizzabili anche in progetti a budget ridotto. Per i Guardiani della Rivoluzione, invece, erano strumenti appositamente collocati in siti strategici al fine di spiare le attività militari iraniane per conto di stati stranieri come Stati Uniti e Israele. Un’accusa senza fondamento per chiunque conosca e abbia usato queste fotocamere, incapaci di restituire un’immagine accettabile per soggetti posti a più di qualche decina di metri di distanza.

 

Passano meno di due settimane dall’arresto e Kavous Seyed Emami, professore di sociologia e direttore della ONG, viene trovato morto nella prigione di Evin a Teheran. “Suicidio” dice il referto delle autorità; ma alla famiglia viene negato il diritto a un’autopsia indipendente che confermi la versione ufficiale. Nel novembre del 2019 arriva per gli altri la condanna della Corte Rivoluzionaria di Teheran (confermata in appello a febbraio 2020): 10 anni a Morad Tahbaz e Niloufar Bayani, rispettavamente fondatore e program manager della ONG; 8 anni a Houman Jowkar e Taher Ghadirian, 6 anni a Sepideh Kashani, Amirhossein Khaleghi Hamidi e Sam Radjabi; 4 anni ad Abdolreza Kouhpayeh (arrestato un mese dopo gli altri). I primi quattro, inizialmente accusati letteralmente di “seminare la corruzione sulla terra“, rischiavano la pena di morte.

 

Fonti internazionali, non confermate dalle autorità iraniane, riportano che nel corso degli interrogatori è stato ripetutamente messo in evidenza il legame tra la Persian Wildlife Heritage Foundation e Thomas Kaplan, miliardario fondatore di Panthera, la più grande tra le organizzazioni dedite alla conservazione dei felini, basata a New York. Kaplan è tra i finanziatori della United Against Nuclear Iran, un gruppo di pressione che sostiene sanzioni severe e un cambio di regime in Iran. Non a caso nel 2017 la Persian Wildlife Heritage Foundation aveva espresso in una lettera a Panthera grande preoccupazione per le possibili conseguenze derivanti dalla collaborazione, seppur occasionale, con un’organizzazione schierata così apertamente contro l’Iran.

In alcune drammatiche lettere inviate al capo della magistratura Sadegh Larijani e rese in parte disponibili in inglese dal Center for Human Rights in Iran, Niloufar Bayani, 32 anni, racconta il trattamento disumano a cui è stata sottoposta nel carcere di Evin. Nelle lettere sono descritte le torture fisiche e psicologiche, le molestie sessuali subite dalla ricercatrice, che ha passato anche otto mesi in isolamento. “Interrogatori che duravano dalle 9 alle 12 ore giorno e notte. […] Ogni volta che cercavo aiuto dalle autorità, le pressioni, le minacce e gli atti di tortura aumentavano”. “Ero sempre più terrorizzata dal fatto che se non avessi scritto quello che [il mio interrogatore] voleva, mi avrebbe violentemente aggredita sessualmente. […] Mentre io perdevo completamente la forza di resistere alle loro pressioni, gli agenti mi dettavano cose che poi venivano usate contro di me” scrive Bayani nelle sue lettere.

 

Fin dalle prime settimane dopo l’arresto è partito il tam-tam mediatico per chiedere l’immediato rilascio dei ricercatori imprigionati. Gli amici e colleghi hanno creato un sito per diffondere informazioni senza filtri di regime e raccogliere gli appelli, primo fra tutti quello firmato da oltre 1.100 tra ambientalisti e biologi della conservazione iraniani e indirizzato al capo della magistratura di Teheran. Nel novembre 2018 oltre 340 scienziati da tutto il mondo, tra cui la grande primatologa Jane Goodall, hanno chiesto il rilascio, seguiti da analoghi appelli tra cui quelli dell’IUCN, l’Unione Internazionale per la conservazione della natura, della Zoological Society of London e, fuori dalla comunità scientifica, dell’ONU e del Parlamento europeo.

 

Il 5 giugno scorso, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, Jane Goodall si è fatta portavoce di un nuovo appello alla clemenza per i ricercatori imprigionati e ha richiamato l’urgenza di riprendere gli sforzi per salvare i grandi felini iraniani dall’estinzione, interrotti dopo l’arresto nel 2018. Nella stessa data un gruppo di nove ex compagne di carcere di Sepideh Kashani e Niloufar Bayani ha pubblicato una lettera aperta di sostegno alla loro causa: “da loro abbiamo imparato e potuto apprezzare più profondamente la sensibilità per la natura e l’ambiente del nostro pianeta e come esso sia la vera ricchezza di ogni suo cittadino.” Tra loro anche Kylie Moore-Gilbert, un’antropologa anglo-australiana, arrestata all’aeroporto di Teheran mentre rientrava a Melbourne dopo un convegno e imprigionata per due anni con l’accusa di spionaggio. La Moore-Gilbert, rilasciata solo a seguito di uno scambio di prigionieri, ha recentemente raccontato in un libro intitolato The Uncaged Sky le violenze fisiche, psicologiche e sessuali alle quali vengono sottoposte le detenute nel carcere di Evin.

Fra poche settimane saranno passati cinque anni dall’arresto e sei ricercatori sono ancora rinchiusi in prigione (Abdolreza Koupayeh è stato rilasciato nel marzo del 2020). Quella che era cominciata come una storia di speranza e orgoglio, un paese in grave crisi economica che tuttavia trova le forze per tentare di salvare una specie a rischio di estinzione, è diventata una vergogna inaccettabile. Invece di essere portati ad esempio come promotori di un’immagine positiva dell’Iran, i ricercatori della Persian Wildlife Heritage Foundation sono stati stritolati da un’inaccettabile invasione della politica nella conservazione della biodiversità. La comunità scientifica internazionale deve tenere accesa la luce su questa vicenda e alzare la voce, parlando anche per coloro a cui la parola è stata tolta il 24 gennaio del 2018.

 

*Andrea Monaco è uno zoologo ricercatore dell’Ispra