Emissioni zero, net zero, carbon neutral… La transizione ecologica è accompagnata da un florilegio di formule, non sempre chiare, neppure agli addetti ai lavori. E la confusione può essere in buona fede, ma può anche essere un alibi per chi scientemente sfrutta terminologie ambigue per confondere l’opinione pubblica.

Proprio di confusione ha parlato in una recente intervista a Repubblica l’amministratore delegato di Enel Francesco Starace: “Smetteremo di emettere CO2… ci siamo impegnati a essere a emissioni zero e non a emissioni nette zero… Qui spesso c’è poca trasparenza e spazio per confusione”.

Ma vediamo allora cosa significano le varie espressioni e perché l’ambiguità delle formulazioni rischia di vanificare gli sforzi che mirano a limitare il riscaldamento del Pianeta al di sotto degli 1,5 gradi, così come previsto dagli Accordi di Parigi.

Le definizioni

  • EMISSIONI ZERO. Con questa espressione si intende la capacità di condurre una qualsiasi attività (la produzione di un bene, l’erogazione di un servizio, uno spostamento, ecc.) senza emettere gas serra (e non solo CO2, che è il principale responsabile del riscaldamento globale ma non l’unico, si pensi al metano). Considerando che qualsiasi attività umana, dalla produzione di cibo alla fruizione di un film su una piattaforma web, richiede energia, le emissioni zero si possono ottenere se si usano solo fonti di energia rinnovabile, che non immettono nell’atmosfera anidride carbonica o altri gas.
  • EMISSIONI ZERO NETTE. È spesso erroneamente considerato un sinonimo dell’espressione “neutralità carbonica” (vedi sotto). In realtà le net zero emissions sono un obiettivo di lungo termine e non una pratica quotidiana. L’Unione europea, per esempio, si è data come obiettivo le emissioni zero nette entro il 2050: significa che tra poco meno di trent’anni l’Europa avrà dovuto eliminare quasi totalmente (l’auspicio è oltre il 90%) le sue attuali emissioni di gas serra, con una tappa intermedia di -55% al 2030. Ma sapendo che non sarà possibile cancellarle tutte, si lascia la possibilità di “compensare” le emissioni di quei pochi settori produttivi che non saranno riusciti a centrare l’obiettivo “zero”. Come? Piantando alberi o riassorbendo meccanicamente la CO2 emessa.
  • NEUTRALITÀ CARBONICA. È un concetto amato da molte aziende e contestato dalla maggior parte dei climatologi. Negli ultimi mesi tanti colossi del business, dal web alle auto, dalla telefonia al trasporto aereo e marittimo, si sono date come obiettivo di diventare in pochi decenni carbon neutral: vale a dire assorbire tutta la CO2 emessa, tanta se ne espelle nell’atmosfera tanta se ne cattura. Al netto degli strumenti con cui riuscirci, e di cui parleremo più avanti, la neutralità carbonica è, secondo molte associazioni ambientaliste, un modo per non affrontare il problema e per delegare ad altri la soluzione. Semplificando: noi continuiamo ad emettere come prima, ma confidiamo che qualcuno da qui al 2050 trovi il modo per riassorbire tutte le nostre emissioni. In linea di principio, se passasse la linea della carbon neutrality, in futuro le emissioni potrebbero persino aumentare, purché qualcuno (o qualcosa) riuscisse a riassorbirle tutte. Al contrario della net zero, che punta a una sostanziale eliminazione delle emissioni e all’assorbimento delle poche residue.

Le soluzioni

La net zero e la carbon neutrality, anche se in misura diversa, richiedono entrambe lo sviluppo di strategie di assorbimento della CO2.

“L’Italia oggi emette 400 megatonnellate l’anno di CO2”, spiega Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr e autore del libro Emergenza energia. Non abbiamo più tempo (Edizioni Dedalo, 2020). “Supponendo che il nostro Paese abbia successo nel perseguire le emissioni zero nette al 2050 volute dalla Ue con un taglio del 90%, ci ritroveremo con 40 megatonnellate l’anno da assorbire. Come? Piantando alberi o adottando meccanismi artificiali di cattura. Ma nessuna di queste opzioni è priva di difficoltà”.

  • ALBERI. Sono la soluzione più naturale. “Ma molti Paesi, a cominciare dall’Italia, non hanno lo spazio fisico per piantare tutti gli alberi necessari a riassorbire la CO2 in eccesso”, avverte Armaroli. “E allora il problema da tecnico diverrebbe geopolitico, perché bisognerebbe rivolgersi a nazioni che hanno terre da trasformare in boschi”. Il rischio è che una sorta di dipendenza forestale rimpiazzi l’attuale dipendenza energetica, che mette i produttori di gas e di petrolio in condizione di dettare le regole. Senza contare le obiezioni di botanici ed ecologi forestali: piantare alberi mi modo indiscriminato solo per assorbire CO2 può essere un disastro per interi ecosistemi.
  • CATTURA E SEQUESTRO DEL CARBONIO (CCS). Filtrare i gas in uscita dalle ciminiere, catturare la CO2 e imprigionarla sotto terra. “Facile a dirsi, molto più complesso metterlo in pratica”, dice Armaroli. “Separare la CO2 dagli altri gas non è banale già quando rappresenta il 10-15% dei gas espulsi da un processo produttivo. Figuriamoci riassorbire quella già dispersa nell’atmosfera: è come avere un milione di palline (le molecole di gas atmosferico) e doverne riconoscere, isolare e catturare 420 (quelle di anidride carbonica). Per alcuni scienziati è fattibile, io, da chimico, la considero pura fantascienza”. Ma anche la cattura “dalle ciminiere” non è priva di controindicazioni. “Ammesso pure che ci si riesca in modo efficiente”, continua Armaroli, “la CO2 va poi stoccata in sicurezza nel sottosuolo, avendo la certezza di non innescare fenomeni geologici. E c’è anche una questione economica non irrilevante: pompare la CO2 ad alta pressione fino a 1500 metri di profondità richiede molta energia. Può essere conveniente solo se si usa questa tecnica per spingere ed estrarre il petrolio residuo nei giacimenti ormai a fine carriera. E non è un caso che tale tecnica sia proposta soprattutto dalle grandi compagnie petrolifere. Ma ha senso seppellire la CO2 per produrre nuovi combustibili fossili che emetteranno a loro volta altri gas serra?”. I dubbi restano, anche se le sperimentazioni e gli investimenti proseguono in molte parti del mondo. Significativo a tal proposito un tweet di Greta Thunberg postato sabato scorso: “L’impianto della Shell che cattura la CO2 in realtà emette più di quanto ne catturi. Ha la stessa impronta di carbonio annuale di 1,2 milioni di auto. Questo è esattamente ciò che accade quando le persone al potere si preoccupano più della propria reputazione e della propria immagine che della riduzione delle emissioni”.

Shell’s facility that captures CO2 actually emits more than it is capturing. It has the same yearly carbon footprint as 1,2 million gas-powered cars.

This is exactly what happens when people in power care more about their reputation and imagery than to actually reduce emissions. https://t.co/OKek7gC9ET

— Greta Thunberg (@GretaThunberg) January 22, 2022

  • BIONENERGIA CON LA CATTURA E IL SEQUESTRO DEL CARBONIO (BECCS). La terza via è una sorta di sintesi delle prime due: si lascia che siano le piante a catturare la CO2 dall’atmosfera e a trasformarla in biomassa, dopodiché si usa tale biomassa per produrre energia. L’anidride carbonica prodotta nel processo di conversione in energia viene catturata e stoccata sotto terra con la Ccs. I vantaggi di questa tecnica sono che si ottiene energia con un bilancio complessivo nullo di CO2, non si estraggono combustibili fossili, e il pompaggio dell’anidride carbonica avviene grazie alla bioenergia prodotta. Ma perché tutto funzioni occorre una Ccs efficiente e collaudata, mentre, come detto, siamo ancora allo sviluppo dei primi prototipi.

“La verità”, conclude Armaroli, “e che tecnologie in grado di assorbire la CO2 nella misura necessaria a frenare il riscaldamento globale non esistono e non è detto che saranno pronte nei prossimi anni. L’unica strada sarebbe puntare non al net zero o alla carbon neutrality, ma alle emissioni zero. Che però rappresenta una sfida pazzesca”.