Il fotovoltaico vivente è più vicino di quanto si creda. Infatti a Losanna stanno studiando i pannelli solari che sfruttano i batteri per generare energia, in pratica sfruttando le proprietà di fotosintesi emancipandoci dall’impiego di silicio e altri materiali.  “Possiamo ipotizzare una decina di anni per i primi pannelli solari, ma il progetto che stiamo portando avanti alla Scuola politecnica federale di Losanna (Epfl) è più di un primo passo”, ci spiega Melania Reggente, ricercatrice post-dottorato del gruppo della professoressa Ardemis Boghossian della School of Basic Sciences dell’ateneo. “Parliamo di cianobatteri facilmente reperibili in natura – anche in uno stagno – che si nutrono di inquinanti, a base di azoto e fosforo, normalmente presenti nell’aria. Per di più con la capacità di autoriprodursi. E poi a seconda delle condizioni ambientali possiamo selezionare i più idonei”, puntualizza Alessandra Antonucci, ex dottoranda del progetto, oggi in forza in una società italiana specializzata in proprietà industriale. La vera svolta comunque si concretizzerebbe nell’impronta di carbonio, perché come ha ricordato Boghossian: “Per produrre la maggior parte del fotovoltaico standard viene rilasciata molta CO2“, mentre la fotosintesi non solo sfrutta l’energia solare ma assorbe CO2. “Questi pannelli solari sono vivi, non hai bisogno di una fabbrica per costruire ogni singola cellula batterica; questi batteri sono autoreplicanti. Assorbono automaticamente CO2 per produrre di più. Questo è il sogno di ogni scienziato dei materiali”.

Da cianobatterio a cyborg-batterio

I cianobatteri applicano naturalmente la fotosintesi, quindi convertono parte della luce solare in elettroni che trasferiscono all’esterno della parete cellulare. Indossando un visore rubato alla letteratura sci-fi si potrebbe assistere a una sorta di diaspora di elettroni. Il problema è che fissando un ipotetico traguardo esterno il numero di medagliati sarebbe molto basso. Con una soglia di inefficienza così alta si generebbe insomma poca energia. La soluzione è nei nanotubi di carbonio, ovvero un foglio di grafite arrotolato su stesso come una sorta di garganello romagnolo lungo qualche centinaio di nanometri. Una delle sue peculiarità è proprio la fluorescenza, quindi la capacità di assorbire radiazioni nel visibile ed emetterle nel vicino infrarosso.

Il team della professoressa Boghossian ha pensato quindi di valutare se l’interazione tra i cianobatteri e i nanotubi di carbonio potesse avere un impatto sull’efficienza del trasferimento elettronico extracellulare. E così i nanotubi sono stati internalizzati nei batteri ma non senza difficoltà perché le pareti dei cianobatteri sono difficilmente penetrabili senza compromettere l’integrità della struttura cellulare. “Abbiamo decorato i nanotubi di carbonio con molecole affini alla membrana esterna. Chiamiamola attrazione fatale, perché il risultato è che il nanotubo viene accolto e diventa parte integrante del cianobatterio, incrementando l’efficienza del trasferimento di elettroni senza effetti collaterali sul resto”, spiega Antonucci. La sfida nella sfida, come riconosce Reggente e si può comprendere dallo studio pubblicato su Nature, è implementare un’interfaccia adeguata che consenta ai batteri con nanotubi di stabilire una connessione con elettrodi. “Ciò permetterebbe un miglioramento dell’efficienza poiché favorirebbe la creazione di canali preferenziali per il trasporto degli elettroni. Questo è uno degli obiettivi sul quale si concentra la nostra ricerca di base nell’ottica dello sviluppo di un vero e proprio prodotto”, sottolinea la ricercatrice.

Come potrebbe essere un pannello fotovoltaico vivente

“Si potrebbe ipotizzare un pannello costituito da celle a stato solido che inglobano batteri”, suggerisce Reggente. “Ovviamente dovrebbero essere ambienti protetti, capaci di garantire la vitalità di questi organismi, ad esempio idrogel umidi”. Insomma i pannelli di domani dovrebbero svolgere contemporaneamente due compiti: proteggere e assicurare la vitalità ai batteri. Un po’ come è avvenuto in laboratorio dove i batteri selezionati hanno dimostrato di poter sopportare bene il ciclo giorno e notte, nonché l’escursione termica di un clima temperato. “Noi ci siamo concentrati su due ceppi molto diffusi nel mondo, ma sulla selezione ovviamente si può ancora lavorare. Abbiamo comunque già ottenuto un ottimo risultato in termini di stabilità con 5 ore di attività, rispetto a quella che potrebbe offrire un fotovoltaico biologico basato su enzimi isolati”, aggiunge Antonucci. C’è però ancora un aspetto affascinante da esplorare. “Abbiamo scoperto che i batteri mantengono la capacità di replicarsi e anche di trasferire i nanotubi di carbonio alle cellule figlie. Vuol dire che quel nuovo potere può essere trasferito alla generazione successiva, sebbene ciò possa risultare in una degradazione nell’efficienza”, conclude Reggente.

Applicazione biomedica

Questo metodo si presta anche ad altre applicazioni: su tutte il bio-imaging, ovvero la possibilità di ottenere immagini dirette o indirette di cellule oppure organi del corpo umano o animale. In tal senso la fluorescenza del nanotubo è nettamente distinguibile da quella naturale e quindi si può fare in modo che quella sorta di decorazione di molecole – che favorisce l’acquisizione da parte delle cellule – sia personalizzata con bio-sensori capaci di rilevare magari variazioni del glucosio o altri composti organici presenti nel corpo umano. In pratica un po’ come avere un led che si accende in presenza di alcuni componenti.