La foresta amazzonica sta per raggiungere un punto di non ritorno, una svolta che la porterà a trasformarsi da foresta pluviale a savana, con conseguenze disastrose per tutto il Pianeta. L’allarme, già lanciato a più riprese dagli scienziati negli ultimi anni, trova conferme in uno studio appena pubblicato su Nature Climate Change da un gruppo di ricercatori internazionali, i quali raccontano attraverso dati e analisi di immagini satellitari come dagli inizi degli anni 2000 a oggi in oltre il 75% della foresta in Amazzonia siano stati registrati segni di perdita di resilienza, indice di una possibile futura “savanizzazione” della foresta pluviale.

Verso il punto di non ritorno

L’Amazzonia mostra infatti oggi in tre quarti dei suoi luoghi una capacità in diminuzione del recupero di alberi ed ecosistemi per esempio contro eventi siccitosi o ondate di calore: in sostanza, fa fatica a riprendersi dopo ogni evento estremo.

Non è chiaro quando si arriverà concretamente al punto di rottura, ovvero quando l’Amazzonia non saprà più riprendersi e si trasformerà in savana: potrebbero volerci diversi decenni ma questo porterà comunque a un rilascio in atmosfera di miliardi di tonnellate di CO2 e a una ulteriore accelerazione della crisi climatica. Per i ricercatori, come Chris Boulton dell’Università di Exeter, un quinto della foresta pluviale è già stato perduto rispetto ai livelli preindustriali e negli ultimi 20 anni la perdita alla resilienza della foresta è sempre più pronunciata.

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Per gli esperti – che si sono concentrati sui dati satellitari dal 1991 al 2016 – le aree che perdono questa capacità sono in particolare quelle più vicine all’uso del suolo da parte dell’uomo, come i terreni coltivati o gli agglomerati urbani: si deteriorano più velocemente così come quelle che ricevono meno precipitazioni.

Impatti su tutto il Pianeta

Il declino della Amazzonia non è irreversibile, ma sono necessari sforzi urgenti se si vuole ancora avere speranza. Anche perché questa trasformazione non avrebbe impatti solo sul Sudamerica, ma “su tutto il mondo”, ricorda il ricercatore forestale Giorgio Vacchiano, spiegando l’importanza dei dati di questa nuova ricerca e le conseguenze di ciò che sta avvenendo.

 

“Le foreste  tropicali – spiega Vacchiano –  sono uno dei possibili tipping point, punti di non ritorno del cambiamento climatico. Ne sono stati identificati una decina finora. si tratta di processi non lineari: processi che si rafforzano da soli una volta innescati. Il più noto è la fusione delle calotte polari, oppure il rallentamento della corrente del Golfo, il deterioramento delle barriere coralline e appunto le condizioni delle foreste tropicali che si reggono su equilibri moti delicati, come ha ricordato l’Ipcc nel suo report recente“.

Tre minacce

Adesso, le foreste hanno davanti tre pericolosissime minacce. “La prima riguarda il ciclo dell’acqua. Durante la stagione secca in Amazzonia non piove e siccome l’acqua che alimenta gli alberi deriva da un ciclo alimentato dagli alberi stessi, senza questi che oggi sono il 20% in meno, si rompe questo ciclo e si innesca un processo a catena. La seconda minaccia è il problema delle ondate di calore che possono aumentare siccità, incendi e aree bruciate, così come il calore può influire sulla fisiologia degli alberi: oltre i 2 gradi di riscaldamento si può deteriorare la capacità fotosintetica. Infine la minaccia deforestazione da parte dell’uomo che ha eliminato negli ultimi 50 anni il 20% della superficie originaria della foresta amazzonica accelerando questo effetto a catena di deterioramento”.

Reazioni a catena

Per via di queste minacce, ora l’Amazzonia potrebbe gradualmente trasformarsi in savana. “La transizione tra foresta e savana era stata prevista già nel 2016. Il nuovo studio certifica scenari preoccupanti dato che questa transizione porterà emissioni in atmosfera di circa 90 miliardi di tonnellate di CO2, un valore doppio rispetto alle emissioni annuali delle attività umane di tutto il Pianeta. Ma svilupperà anche maggiore diffusione di malattie tropicali e modifica delle piogge. Non solo: la grande quantità di sostanza organica che la foresta Amazzonica produce finisce nell’oceano e alimenta gli ecosistemi marini, avendo anche un ruolo nella circolazione oceanica. Se scomparisse la foresta sarebbe quindi un dramma anche per gli oceani, privati di sedimenti fondamentali per i loro equilibri”.

Quando si potrebbe arrivare realmente al punto di rottura? Per Vacchiano “è possibile che questo avvenga entro il secolo” e “Il tipping point sarà superato quando la capacità di reazione degli alberi ad annate siccitose o incendi sarà troppo lenta per far fronte al ricorrere di questi eventi. Ciò provocherà l’inizio del degrado che scatenerà la savanizzazione”.

C’è ancora speranza

Non tutto è perduto però. La speranza di poter bloccare questo processo esiste ed è da ricercare ancora una volta nelle scelte dell’uomo. “Per arginare la crisi climatica – prosegue il ricercatore italiano – è necessario insistere con la mitigazione e mantenere il riscaldamento sotto i +1,5 °C, e in questo il Brasile dovrà fare di più. Poi c’è la deforestazione per cui c’è una questione economica e sociale. I costi per evitare la savanizzazione sarebbero minori di quelli da affrontare se avverrà. Molti fattori purtroppo oggi sono legati agli equilibri geopolitici: per esempio l’impennata dei prezzi delle materie prime legate all’invasione della Russia in Ucraina ha spinto verso l’alto anche la soia e la conseguenza sarà un aumento della deforestazione nel breve termine perché i piccoli contadini avranno maggiore interesse a disboscare per piantare soia, quella che arriva poi da noi come foraggio. Ecco, per avere speranza dobbiamo spezzare questi meccanismi“.

In sostanza, spiega Vacchiano, per tentare di rallentare la savanizzazione dell’Amazzonia “bisogna colpire i flussi di prodotti che causano la deforestazione. In tal senso l’Ue sta discutendo una direttiva rivoluzionaria che obbligherebbe tutti coloro che vogliono immettere prodotti sul mercato europeo a dimostrare che questi non hanno causato deforestazione, persino fornendo coordinate geografiche su dove sono stati coltivati i prodotti. Speriamo questa idea passi e resista alle pressioni delle lobby”.

Da sola però questa legge non basta, perché serve anche “un’azione sociale: studi dimostrano che i luoghi dove la foresta tropicale è meglio protetta sono quelli destinati all’uso e alla vita delle popolazioni indigene, che non degradano, ma tengono in equilibrio la terra. Sono loro i custodi dell’Amazzonia: andrebbero supportati, anche economicamente, prima di arrivare davvero al punto di non ritorno”, conclude l’esperto.