L’economia circolare è come un animale in cattività capace di raggiungere grandi risultati, ma che richiede un capillare governo delle cose che gli stanno attorno e soprattutto l’educazione del padrone. Perché uno dei più grandi rischi è che anche la più zelante e illuminata applicazione di questo modello produca il cosiddetto effetto rimbalzo. Un fenomeno emerso nella seconda metà dell’800, agli albori della seconda rivoluzione industriale, quando l’economista William Stanley Jevons si rese conto che il miglioramento dell’efficienza dei motori a vapore non generava una riduzione dei consumi di carbone bensì un loro aumento, a causa di un maggiore impiego delle macchine. Un po’ come se l’azione virtuosa generasse un effetto collaterale inaspettato.


Il concetto di rebound è nato nell’ambito dell’efficienza energetica, ma nel tempo ha superato i suoi confini iniziali. In un’economia circolare, questo effetto può far sì che l’utilizzo di beni riciclati, riutilizzati o di seconda mano comporti un aumento della produzione e dei consumi, causando nuovo inquinamento non previsto. Ed è per questo motivo che con tre colleghi della Sheffield University Management School ci siamo concentrati sulla possibilità di stimarne l’effetto in contesti circolari per moderarne in prospettiva l’impatto. Abbiamo condensato questi sforzi in un articolo scientifico che è stato recentemente pubblicato sul Journal of Cleaner Production di Elsevier, ci spiega Pierluigi Zerbino ingegnere gestionale e ricercatore senior in Economia Circolare e Innovazione Digitale presso l’Università di Pisa.

Packaging

Imballaggi, via libera al nuovo regolamento Ue

di Fiammetta Cupellaro

La prima criticità per iniziare a fare i conti con il “rebound” riguarda proprio la definizione di economia circolare poiché in ambiente scientifico, ci sono più di 200 definizioni diverse che non coincidono perfettamente, pur avendo elementi in comune. “Persino in ambito comunitario il dibattito è aperto. Si pensi ad esempio al confronto nel settore degli imballaggi dove l’Italia, forte di un’eccellente e ben rodata infrastruttura di recupero, valorizza il riciclo, mentre le grandi istituzioni europee sono generalmente più orientate al riuso”, sottolinea Zerbino. “Quindi, secondo la mia esperienza maturata nelle sedi accademiche e nelle aziende, l’economia circolare è prima di tutto un sistema economico in cui domanda e offerta si incontrano per cercare di assicurare la massima longevità a prodotti e materiali, quindi posticipare il loro fine vita con una serie di strategie“.

Ecco il senso del riciclo, il riuso, la riparazione, l’ammodernamento e la discriminazione attuata nei confronti di un certo tipo di materiali impattanti. “L’economia circolare si mette in pratica grazie a queste scelte, poiché gli obiettivi rimangono due: la sostenibilità economica e quella sociale, che passa anche attraverso l’ambientale. In sintesi spremere valore fino all’ultima goccia, anche generando materia prima secondaria, prima di gettare davvero qualcosa”, aggiunge il ricercatore.

Rusko, il bar dove si aggiusta tutto pur di non buttare via niente

Dopodiché una volta stabilita la definizione, per stessa ammissione di Zerbino piuttosto “agnostica”, è sufficiente concentrare lo sguardo sulla letteratura scientifica dedicata al rebound per comprendere che sia un aspetto chiave per la sostenibilità. Ad esempio nel 2018 i ricercatori Tamar Makov e David Font Vivanco con lo studio Does the Circular Economy Grow the Pie? The Case of Rebound Effects From Smartphone Reuse hanno rilevato un’anomalia nel mercato statunitense degli smartphone.

L’acquisto dei modelli ricondizionati avrebbe dovuto estendere i cicli di vita dei prodotti e sfruttare al massimo il parco circolante, riducendo di conseguenza l’impatto ambientale per la produzione di nuovi smartphone. In realtà è emerso che i consumatori continuano ad acquistare modelli nuovi aggiungendo semplicemente i ricondizionati, che di fatto costando meno si prestano a essere usati come muletti. E qualcosa del genere è emerso nuovamente nel 2021 con una ricerca finlandese nel mondo dei jeans (Innovative recycling or extended use? Comparing the global warming potential of different ownership and end-of-life scenarios for textiles). Strategie di economia circolare come il noleggio rischiano di essere più controproducenti per l’ambiente rispetto a produrre un nuovo capo di jeans.

 

MODA SOSTENIBILE

Anche i jeans sporcano la terra

di Giacomo Talignani

Più in generale, il ridotto costo dei capi di abbigliamento frutto di economia circolare può incrementare i consumi, e non il contrario. E sempre per lo stesso meccanismo percettivo: costano poco, salvano la coscienza e quindi il consumatore continua ad aumentare il guardaroba.

“È che di norma un’economia circolare produce gli effetti ambientali positivi nel momento in cui i prodotti secondari, o i materiali secondari, sono in grado rimpiazzare quelli primari”, riconosce Zerbino. “Si dà per scontato che la sostituzione avvenga ma in realtà vi sono meccanismi legati alla domanda e all’offerta che possono alterare il processo di sostenibilità. Senza contare l’impatto industriale della eventuale transizione produttiva”.

Non esiste un’unica soluzione al problema, ma si possono adottare degli accorgimenti caso per caso.

“Il primo è quello di parlare di questo fenomeno e quindi riconoscere che l’economia circolare non è intrinsecamente sostenibile, ma un mezzo per raggiungere la sostenibilità”, puntualizza il ricercatore. “In secondo luogo più si abbassa il valore del prodotto e più diventa difficile gestire il rebound. E attenzione si tratta di gestire, perché non è detto che si possa annullare del tutto”. “Insomma, se si pensa di massimizzare contemporaneamente la performance ambientale e quella economica sul breve periodo, forse si domanda troppo. La vera sfida inizia col fare tanta disseminazione ed evangelizzazione su comportamenti di consumo e su comportamenti di non-consumo”, conclude Zerbino.