I primi casi, sospetti, di uomini infetti (due cacciatori, negli Stati Uniti) portano ancor di più alla ribalta dell’attualità quella che, tecnicamente, è definita come malattia da deperimento cronico nel cervo (CWD), in inglese Chronic Wasting Disease. La storia, pubblicata sulla rivista Neurobiology, riguarda un 72enne che nel 2022 aveva consumato carne di cervo proveniente da una popolazione infetta, morto un mese dopo i primi sintomi. Stessa sorte per un amico. Casi che – si legge nello studio – potrebbero suggerire “una possibile nuova trasmissione della malattia da animale a uomo, ipotesi di un salto di specie che – sulla base di modelli di primati e topi – è considerata plausibile”. Tecnicamente possibile sarebbe il passaggio dei prioni – agenti patogeni di natura proteica – dai cervidi, tra le cui popolazioni statunitense si sono registrati centinaia di casi negli Usa (800 tra cervi e alci nel solo stato del Wyoming), all’essere umano.

 

Una malattia degenerativa del sistema nervoso

Ma cosa è, nel dettaglio, la CWD? Si tratta di un’encefalopatia spongiforme non troppo dissimile dalla celebre encefalopatia spongiforme bovina (Bse, il morbo della mucca pazza), legata all’accumulo dei prioni. Un accumulo considerato direttamente responsabile di una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. Così, i cervidi diventano “sbavanti, letargici ed emaciati” e il loro sguardo vuoto ha suggerito il nome comune, per l’appunto, di malattia del cervo zombie. Il risultato è che gli animali soccombano facilmente a predatori e incorrano in incidenti stradali e vadano incontro alla morte in un periodo compreso tra qualche settimana e quattro mesi dopo l’insorgenza dei primi sintomi.

Giuseppe Ru, epidemiologo veterinario, è il responsabile dell’unità di Biostatistica Epidemiologia e Analisi del Rischio (Bear) dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, che è il centro di referenza nazionale per lo studio e le ricerche sulle encefalopatie animali e neuropatologie comparate. Si occupa da decenni di malattie come questa. Che definisce come “una patologia complessa, che ha tempi lunghi di incubazione e che porta i cervidi inevitabilmente alla morte dopo aver sviluppato una serie di sintomi importanti”, dice.

In Europa allerta in Scandinavia

“Prima ancora di stabilire se lo spillover (termine che definisce il passaggio di un patogeno da una specie ospite all’altra, ndr) si è già verificato, vale la pena evidenziare come la situazione in America sia preoccupante. – aggiunge Ru – Nel 1967 in Colorado sono stati individuati i primi casi di questa malattia, all’interno di strutture di ricerca che ospitavano cervi. Poi, gradualmente, si è estesa in Wyoming e in Nebraska, contagiando anche animali selvatici. Dalla metà degli anni 90 si sono accesi i riflettori sulla malattia: dieci anni fa, 25 Stati americani erano già interessati dalla malattia, oggi sono 33. E la CWD si è diffusa anche in cinque province del Canada“.


In Europa la malattia è già presente: diagnosticata per la prima volta in una renna norvegese nel 2016, nuovi casi sono stati individuati in renne, alci e cervi nella Scandinavia, per un totale di 37 casi in Norvegia (12 alci, 3 cervi, 21 renne), 4 in Svezia e 3 in Finlandia. In Italia, dove dal 2017 si ha un’attenzione particolare ai decessi di cervidi, non ci sono casi documentati.


Rischio contagio elevatissimo. Ma non per l’uomo

Il rischio contagio è particolarmente forte. – prosegue – L’agente, molto resistente, viene trasmesso attraverso saliva, urine e feci, ma è in grado anche di contaminare l’ambiente circostante, dove – essendo molto resistente – può sopravvivere per diverso tempo”.

E difficile si sta rivelando anche la strategia di contrasto all’epidemia: nel 2016, dopo il primo focolaio norvegese, la popolazione con i capi infetti – che viveva in una sorta di semi-isolamento naturale – fu interamente abbattuta, con 2000 capi uccisi. Poco dopo, non troppo lontano, la malattia si ripresentò all’interno di una popolazione ben più consistente. Ora, il rischio è che intacchi la popolazione di renne semidomestiche, che hanno un patrimonio genetico differente e che – auspicano gli scienziati – potrebbero essere più resistenti al contagio. Anche perché le renne semidomestiche sono una delle prime risorse economiche per la popolazione Sami, che sarebbe dunque molto esposta al rischio di una zoonosi. “Ma lo spillover non è mai prevedibile. – annota Ru – E anche quando accade, come nel caso della cosiddetta mucca pazza, può darsi che i numeri dei casi siano significativamente inferiore ai livelli di allarme”.

Lo studio

Quel legame tra deforestazione ed epidemie

di Annalisa Bonfranceschi


Attenti ai lupi: saranno immuni?

“Certo è – annota Nicola Bressi, naturalista, divulgatore e zoologo del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste – che siamo di fronte a qualcosa di nuovo, da studiare e approfondire. Al netto del potenziale contagio di essere umani, bisognerebbe interrogarsi anche a un possibile spillover nei canidi, lupo in primis, che delle carcasse di cervi e alci si nutrono. Nel caso, evidentemente distante, della peste suina, si è visto che il consumo di carne infetta non li contagi. Stavolta, è ancora tutto da scoprire. Per noi biologi, però, è intrigante comprendere il ruolo dei prioni: proteine modificate, non esseri viventi. Rispetto ai virus, che replicano il loro codice genetico innestandolo in nuove cellule, i prioni ‘lavoranò contagiando meccanicamente le proteine a contatto. E diventando letali”.