Parlare di cibo sostenibile e dei suoi impatti sul clima, nel contesto della crisi energetica, geopolitica, militare ed economica globale può sembrare un esercizio di retorica ambientalista e un dettaglio di cui potremmo fare anche a meno. In realtà se guardiamo ai numeri, i “facts check” del settore agro-alimentare globale il tema è indubbiamente rilevante per una serie di ragioni evidenti.

La prima è che le emissioni di gas serra associate all’intera catena alimentare (dalla fattoria alla forchetta – “Farm to Fork” in linguaggio bruxellese) sono circa il 37% di quelle totali. Il settore agroalimentare emette circa 15 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, la stessa identica quantità dell’energia del settore elettrico globale. Ebbene sì: quello che mettiamo nel piatto impatta come la bolletta elettrica in termini di emissioni.

La seconda questione riguarda lo spreco enorme di cibo di cui siamo responsabili, circa il 40 % del cibo prodotto in Europa finisce in pattumiera. È interessante notare che la maggior parte del cibo viene buttata nelle pattumiere delle case (61%), poi nei servizi di ristorazione (26%) ed infine nella grande distribuzione (13%). Ci lamentiamo del prezzo del cibo ma continuiamo a gettarlo via, senza pensare che quello che buttiamo ha comunque richiesto terra, acqua, fertilizzanti, gasolio, tutte risorse che aggravano la crisi ambientale, ma che sono buttate anch’esse in pattumiera. Nel contesto geopolitico di guerra che viviamo, guardando con tristezza le navi di grano bloccate nel Mar Nero, dovremmo magari fare una riflessione sul nostro spreco. 

La terza questione riguarda la nostra bilancia commerciale del cibo. L’Europa è il più grande importatore di cibo primario del mondo. Una parte non trascurabile delle emissioni di gas serra della catena agro alimentare è il trasporto di cibo tra continenti, a cui si aggiungono i rischi geo-politici che ne seguono. Il paradosso è che la nostra politica comunitaria di sostegno all’agricoltura ha deliberatamente incentivato l’abbandono delle terre e la loro messa a riposo (set-aside), creando non pochi squilibri con i Paesi in via di sviluppo che hanno dovuto produrre materia prima anche per gli europei, togliendola ai fabbisogni locali. Oggi ci svegliamo con la crisi energetica che per anni ci ha reso schiavi di potenze straniere, per una scelta industriale miope e di convenienza di breve periodo, e non vorremmo che tra qualche anno suoni anche la sveglia ben più forte: quella della mancanza di cibo che non produciamo più in Europa ed in Italia.

La sovranità alimentare, che è un tema assolutamente rilevante nei Paesi più poveri, non è così distante nella nostra situazione di apparente ricchezza e stabilità. Il ritorno alla terra ed alla produzione di cibo di prossimità è una scelta non più procrastinabile. II ritorno alla produzione primaria in Europe avrebbe il vantaggio di ridurre le emissioni di gas serra dell’intero settore agro-alimentare e contribuire globalmente alla stabilizzazione del clima.

Infine l’uso di pratiche agronomiche sostenibili può aumentare lo stoccaggio della CO2 atmosferica nei suoli e nella biomassa. Le buone pratiche agricole potranno in Europa essere fondamentali per raggiungere la neutralità carbonica per coprire il 10% delle emissioni che non sarà possibile ridurre direttamente. L’Italia può contribuire al carbon sequestration con la sua agricoltura forse più di ogni altro Paese con le sue coltivazioni legnose di pregio ( vigneti, frutteti, oliveti etc). Forse non ci pensiamo molto ma i prodotti di queste coltivazioni, dall’olio al vino alla frutta sono “nativamente” carbon neutral, perché il frutto che noi utilizziamo è il risultato di una biomassa legnosa che cresce e cattura CO2 dall’atmosfera. Ad esempio, un albero di frutta (come la prugna) può arrivare a catturare 30-40 Kg CO2 ogni anno, rendendo la prugna che mangiamo di fatto carbon neutral.

In questa sfida importante del cibo e dell’impatto sul clima, i cittadini e consumatori giocano un ruolo fondamentale perché possono dare un contributo importante alla riduzione delle emissioni. Ad esempio, un consumo moderato di carne bovina (circa una volta alla settimana) può ridurre del 30% le emissioni di gas serra del sistema agro-alimentare. Se tutti potessero mangiare in modo sostenibile, seguendo la dieta mediterranea, potremmo consumare circa 2Kg di CO2 per persona al giorno, un target che ci permetterebbe di rientrare nei 2°C di riscaldamento che è necessario per la nostra sopravvivenza come civiltà umana.

Di questi scenari e delle esperienze concrete dedicate a ridurre l’impatto ecologico della nostra alimentazione si parlerà nel convegno “Cibo e Clima”, aperto al pubblico organizzato dalla Società Italiana di scienze per il Clima, sabato 22 ottobre presso l’Arciconfraternita dei Bergamaschi in Roma, in via della Pietra.

*Presidente della Società Italia per le Scienze del Clima