Un’enorme corrente a forma di vortice nella parte settentrionale dell’Oceano Pacifico, fra la costa occidentale degli Stati Uniti e il Giappone, ha portato all’accumulo di due grandi chiazze di rifiuti, che insieme formano la Great Pacific Garbage Patch. Se ne parla da anni, soprattutto da quando i satelliti hanno cominciato a scattare immagini di questo accumulo di plastiche e rifiuti, ma ora, grazie a uno studio pubblicato su Scientific Reports, sappiamo che il 90% della spazzatura proviene da appena sei Paesi – le principali nazioni industrializzate dedite alla pesca.

La grande macchia di rifiuti

Il vortice subtropicale del Pacifico Settentrionale è un’enorme corrente formata da quattro correnti più piccole che ruotano in senso orario attorno a un’area di 20 milioni di chilometri quadrati: la corrente della California, la corrente equatoriale settentrionale, la corrente di Kuroshio e la corrente del Pacifico settentrionale. L’accumulo dei detriti nelle due macchie situate a est e ovest di questa regione è il risultato dell’azione combinata del movimento circolare del vortice – che attira i detriti – e della stabilità dell’area al centro del vortice – che rimane molto calma. Più che un’enorme isola di rifiuti, come spesso viene descritta e immaginata, la grande macchia si presenta come una sorta di zuppa viscosa. Si tratta di decine di migliaia di tonnellate di rifiuti non biodegradabili, secondo le stime, per lo più plastiche che l’oceano rompe in pezzetti via via più piccoli. Oltre a questi, poi, ci sono pezzi di dimensioni maggiori come attrezzi da pesca, reti e scarpe.

 

La raccolta dei rifiuti

Per capire se vi fosse un’origine preferenziale dei rifiuti accumulati, i ricercatori hanno usato i risultati di una campagna di raccolta di rifiuti avvenuta nel 2019 da parte del progetto olandese The Ocean Cleanup. In poco più di quattro mesi, erano stati raccolti, smistati e studiati rifiuti di plastica dura, reti e corde. Nello studio, i ricercatori hanno considerato circa seimila pezzi di rifiuti di plastica dura, e hanno cercato di definirne la provenienza identificando le parole stampate su di essi, o particolari simboli di brand e loghi noti. Un terzo dei rifiuti non è risultato identificabile, mentre il 26% del materiale raccolto era costituito da attrezzature da pesca. Boe e galleggianti di plastica contavano appena per il 3% degli oggetti trovati, ma costituivano una frazione importante dell’intera massa della grande ”macchia” di rifiuti, circa il 21%.

Gli oggetti riconosciuti

Per appena 232 oggetti su seimila i ricercatori hanno saputo identificare con certezza la provenienza: al primo posto vi era materiale di origine giapponese (il 33.6%), seguito da Cina (32.3%) e Corea del Sud (9.9%). Dagli Stati Uniti proviene invece circa il 6.5% dei rifiuti, e in percentuale minore poi sono stati trovati oggetti taiwanesi e canadesi.

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Questi sei Paesi, da soli, costituiscono circa il 92% di tutti i rifiuti identificati. La principale attività di origine, invece, è la pesca: tutti questi paesi esercitano, dunque, attività di pesca massiva. I danni alla salute di flora e fauna marina causati dalle microplastiche sono noti e riguardano anche gli esseri umani, che proprio attraverso la pesca si nutrono della fauna marina. Il fatto che i rifiuti si siano accumulati nella grande macchia del Pacifico, infine, non significa che non ve ne siano altrettanti diffusi nelle acque dalle quali attingiamo per nutrire la filiera alimentare. Occorre, concludono i ricercatori, una maggiore trasparenza da parte dell’industria della pesca, e un rafforzamento della cooperazione tra i paesi per regolamentare e monitorare l’accumulo di attrezzi da pesca abbandonati, persi o scartati.