La filiera agroalimentare italiana non solo è il primo settore economico del paese e proprio per questo i punti di forza e le criticità che lo caratterizzano sono cruciali nel momento in cui si analizza lo stato di salute dell’economia italiana e si discute di come accelerarne la crescita strutturale. È la convinzione di Antonio Faraldi, managing director e partner di Bcg, nonché segretario esecutivo del gruppo di lavoro Food di AmCham Italy (la Camera di Commercio americana nel nostro Paese).

Quali sono i punti di forza e quelli di debolezza della filiera alimentare italiana?

“La filiera agroalimentare italiana non solo è il primo settore economico del paese, come testimoniano un fatturato di 500 miliardi di euro, ovvero il 25% del Pil italiano, e quattro milioni di occupati, pari al 17% del totale, ma la filiera ha anche enormi potenzialità i potendo contare su una serie di punti di forza. Il primo è che il paese vanta già un posizionamento internazionale riconosciuto della propria immagine e della propria filiera nel Food. Made in Italy, da sempre, fa rima con qualità del cibo, varietà dell’offerta enogastronomica e controlli rigorosi lungo tutta la filiera. Un insieme di fattori che le hanno fatto guadagnare prestigio e credibilità sul mercato. Il secondo è che il tessuto industriale e culturale è ricettivo al cambiamento, quindi perfettamente in grado di lavorare per migliorarsi e raggiungere nuovi traguardi. Si tratta di due caratteristiche importanti, che danno all’Italia un indiscutibile vantaggio competitivo e potrebbero rappresentare il volano per l’economia nazionale”.

Antonio Faraldi
Antonio Faraldi 

Detto dei valori principali, quali sono invece le criticità?

“I gap da colmare sono diversi e possono essere divisi in due categorie: quelli riconducibili al climate change e quelli legati ai modelli di sviluppo ed economici nazionali. Per quanto riguarda il primo gruppo, occorre considerare che, nonostante la sostenibilità e il contrasto al cambiamento climatico siano un’esigenza sempre più sentita dai consumatori e la pressione sulle aziende aumenti di anno in anno, spesso l’impegno di queste ultime a misurare ed eventualmente compensare o ridurre le emissioni viene rinviato, sostanzialmente per il timore dei costi che questo implica. Gli imprenditori si trovano a fare i conti con margini di guadagno sempre più stretti, dove l’aumento dei costi di produzione non determina sempre un incremento del costo dei prodotti”.

Pesa anche il fattore dimensionale?

“L’agroalimentare italiano è una filiera particolarmente complessa. Le grandi aziende producono il 60% del fatturato, mentre quelle più piccole, quantitativamente il 50% del totale, valgono nel loro insieme il 5%. La molteplicità di attori è chiaramente una ricchezza e un elemento distintivo. Al tempo stesso, la frammentazione è una barriera che può rallentare un certo sviluppi su larga scala”.

Con il gruppo di lavoro che guida in AmCham avete elaborato un white paper intitolato “La filiera lunga del food e il suo ruolo strategico nell’economia italiana”. Quali gli spunti principali che emergono?

“Premesso che l’analisi è precedente al conflitto geopolitico e alla crisi energetica attuale, questa analizza il ruolo strategico della filiera per l’economia del nostro paese e traccia un percorso per rafforzare la sua leadership mondiale, partendo dai punti di forza che già possiede. L’angolo che ci ha trovato tutti d’accordo è stato quello della sostenibilità come nuova frontiera del premium, oltre che come dovere verso il pianeta. Puntare in maniera decisa al Net Zero per la filiera del food italiano darebbe un valore ancor più elevato che ad altri comparti: vorrebbe dire giocare meglio e con anticipo la partita per un posizionamento ancor più di prestigio e qualità. Oltre che dare un contributo materiale a quello che è il problema della nostra generazione (e delle prossime), vale a dire il riscaldamento globale”.

Cosa auspica per favorire una crescita sana del settore?

“E’ importante è non accontentarsi di un approccio fondamentalmente di compliance, dove la filiera si adegua reattivamente alla normativa. Lo spirito corretto deve essere quello di chi gioca d’anticipo sui tempi, per imprimere un’accelerazione forte e mirata. Affinché questo avvenga, oltre alla predisposizione dei singoli attori, serve un disegno istituzionale lungimirante e degli interventi strutturali che abilitino un’accelerazione forte, estesa all’intero ecosistema. Il tutto idealmente nel solco di quanto già previsto dal Pnrr. Di conseguenza, nell’ottica di evidenziare il valore della filiera alimentare come un’unica lunga supply chain, vanno considerati come un tutt’uno i comparti agroalimentare, ristorazione, logistica, packaging, gdo e i produttori di macchinari e innovazioni tech in ambito agricolo”.

Alla luce di questa analisi, quali proposte avete avanzato?

“Proponiamo tre ambiti di intervento, a partire dall’economia circolare, che guarda a raccolta, differenziazione e smaltimento dei rifiuti, attraverso la trasformazione in materia prima ad alto valore aggiunto per molti settori. In secondo luogo la produzione di energie rinnovabili, puntando a mettere le aziende nella condizione di intraprendere una diagnosi energetica e percorsi di efficienza e di produzione di energia da fonti rinnovabili, per identificare le opportunità di risparmio, riducendo gli sprechi e favorendo il contenimento dei consumi nel ciclo produttivo. Infine sostenibilità e competitività delle filiere, come driver di ogni strategia, dalla materia prima al packaging, con l’obiettivo di sostenere l’adozione e la diffusione di pratiche sostenibili e la formazione del personale impegnato ad ogni livello della filiera. Oltre a questi interventi, gli operatori dovranno imparare a pensare in termini di ‘Sistema Italia’ per permettere ai player di sentirsi parte di una catena virtuosa e compatta, da cui potranno derivare benefici per tutti e grazie alla quale ci sarà la possibilità di intavolare un dialogo unico con le istituzioni”.