“La prova è inequivocabile: la biodiversità, importante di per sé ed essenziale per le generazioni attuali e future, viene distrutta dalle attività umane a un ritmo senza precedenti nella storia”. Con queste parole Sir Robert Watson, presidente dell’IPBES, la piattaforma intergovernativa dell’ONU sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, commentava nel 2019 i risultati appena pubblicati nel Global Assessment, che riunisce i contributi di oltre 1.000 scienziati da tutto il mondo.
Per quanto autorevole, l’allarme lanciato dall’IPBES non era che l’ultimo dei tanti che si erano susseguiti a partire dal 1986, l’anno di “nascita” della parola “biodiversità”, pronunciata per la prima volta a Washington in occasione di un convegno organizzato dalla National Accademy of Sciences e dallo Smithsonian Institute. A raccontarcelo è il grande naturalista americano E.O. Wilson, scomparso nel 2021, che quella parola tenne a battesimo, proprio raccogliendo gli interventi del convegno in un volume uscito nel 1988 e intitolato BioDiversity, divenuto negli anni un vero best seller.
Ma cos’è la biodiversità? Bella domanda. Se si cerca una definizione si rischia di perdersi. È un concetto multiforme che non si presta ad essere formulato in modo univoco, come dimostrano le numerose definizioni utilizzate dallo stesso Wilson nel corso degli anni. Sulla sostanza però gli scienziati concordano: la biodiversità è la varietà della vita sulla Terra, costituita dalle piante, dagli animali, dai microrganismi, dalle informazioni genetiche che contengono, dagli ecosistemi che formano e dalle relazioni che tra tutti questi elementi intercorrono.
Il termine “biodiversità” dovrà aspettare la storica prima conferenza mondiale dell’ONU sull’ambiente, l’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, per acquisire una risonanza mondiale. A Rio 150 stati firmano la Convenzione sulla diversità biologica (oggi sono 196) e riconoscono la biodiversità come bene globale di enorme valore per le generazioni presenti e future. Da quel momento il termine “biodiversità”, nonostante nel testo del trattato venga utilizzato solo nella sua forma estesa (diversità biologica), acquisisce anche una rilevanza politica e istituzionale che, nel nostro Paese, arriva all’apice nel 2022, con il suo ingresso nella Carta costituzionale. Con la modifica dell’articolo 9, la tutela della biodiversità (“anche nell’interesse delle future generazioni”) va ad aggiungersi a quella di “ambiente” ed “ecosistemi”, introdotta con la Riforma del Titolo V nel 2001, tra i principi fondamentali della Costituzione.
In quasi 40 anni di vita la parola “biodiversità” è diventata di uso comune in tutto il mondo, non solo in ambito scientifico. In alcuni casi ci è scappata un po’ la mano e tutto è diventato biodiverso: biodiversità alimentare, biodiversità umana, biodiversità culturale, perfino biodiversità linguistica. La biodiversità è entrata nelle nostre vite, nel nostro lessico prendendo il posto, sempre più spesso, di quella che una volta chiamavamo “natura”. Eppure, moltissime persone non sanno nemmeno cosa significhi.
I dati pubblicati nel 2019 dall’Eurobarometro, lo strumento attraverso il quale la Commissione europea indaga l’opinione dei cittadini dell’UE, sono preoccupanti: la maggioranza degli europei non ha mai sentito la parola “biodiversità” (41%) o non ne conosce il significato (30%). In Italia le cose vanno anche peggio perché la percentuale complessiva sale al 76%. Ma la carenza conoscitiva sembra essere un problema globale, come conferma uno studio australiano del 2019 coordinato dall’ecologo Michael A. Weston della Deakin University di Melbourne, nel quale circa il 50% degli intervistati ha risposto alla domanda “cosa significa per te il termine ‘biodiversità?” ammettendo di non conoscere il significato del termine, oppure fornendo una risposta che aveva poco a che fare con la definizione di biodiversità; un altro 18% ha invece risposto in modo vago, citando piante o animali o descrivendo concetti come armonia ed equilibrio.
Se la maggior parte del grande pubblico non conosce il significato del termine biodiversità, una fetta non trascurabile del mondo scientifico sembra farne un uso discutibile. Uno studio da poco pubblicato sulla rivista Current Biology, infatti, ha rilevato la tendenza ad un utilizzo inappropriato del termine “biodiversità” nella letteratura scientifica. Con una logica simile al clickbaiting, oltre un quinto degli articoli scientifici analizzati, pur contenendo la parola “biodiversità” nel titolo, non la tratta o la tratta in modo molto parziale nel testo; così facendo si sfrutta l’appeal del termine per guadagnare visibilità e citazioni. Un utilizzo improprio che, a detta degli stessi autori, può rivelarsi rischioso in quanto catalizza l’attenzione sulle cose più vendibili e introduce una distorsione che può influenzare in modo errato le politiche di conservazione della biodiversità e l’utilizzo delle esigue risorse disponibili.
Se il termine “biodiversità” stenta ad affermarsi tra il grande pubblico lo si deve anche al fatto che il suo significato non è affatto facile da comprendere. Se ne è accorta la testata inglese The Guardian che nel 2019 l’ha inserito nella sua Guida di stile tra i termini che sarebbe meglio evitare nel linguaggio corrente perché ritenuto poco comprensibile per il grande pubblico. È un concetto dinamico, complesso, che richiama scale spaziali e dimensionali diverse e richiede uno sforzo di astrazione per mettere in relazione i diversi elementi che lo compongono. E non si scappa: la complessità richiede riflessione, la riflessione richiede tempo e il tempo non c’è in questa società sempre meno abituata al pensiero profondo, tiranneggiata dalla semplificazione e dalla banalizzazione dei contenuti per renderli adatti alla fruizione veloce.
E anche gli sforzi di chi in questi anni si è adoperato per divulgare il significato e il valore della biodiversità, servendosi di una terminologia semplice ma corretta, sfruttando la potenza della narrazione e cercando di stimolare perfino l’utilitarismo dell’essere umano spiegando quello che “la biodiversità fa per noi”, evidentemente non hanno dato i risultati sperati. Almeno fino ad ora e sicuramente con le persone adulte.
Come si fa a comprendere l’urgenza degli allarmi lanciati dalla comunità scientifica se non si conosce il significato e il valore della biodiversità? Semplice: non si può. Il fatto che così poche persone si rendano conto di ciò che si sta perdendo riduce la speranza di riuscire ad invertire la tendenza, tanto da essere considerato da alcuni uno dei fattori che contribuiscono alla crisi di estinzione della biodiversità. Non è un caso che il testo dello storico accordo raggiunto alla recente COP15 di Montreal si chiuda con un’intera sezione dedicata alla necessità di “migliorare la comunicazione, l’educazione e la consapevolezza sulla biodiversità” come premessa irrinunciabile per ottenere il cambiamento dei comportamenti, promuovere stili di vita sostenibili e arrestare la perdita di biodiversità.
Vietato alzare bandiera bianca, quindi. Lo aveva capito anche E.O. Wilson che nel suo The Diversity of Life del 1992 a tal riguardo citava le parole pronunciate nel 1968 da Baba Dioum, ingegnere forestale senegalese, di fronte all’assemblea generale dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura: “alla lunga, conserveremo solo ciò che amiamo, ameremo solo ciò che comprendiamo e comprenderemo solo ciò che ci insegnano”.
*Andrea Monaco è uno zoologo ricercatore dell’Ispra