“Biodiversità” è una di quelle parole composite che sembrano spiegarsi da sole: “diversità della vita” intesa, per esempio, come numero di specie diverse in un determinato luogo. Questo aspetto della biodiversità è tuttavia solo quello più facile da cogliere, ma non è l’unico. Occorre fare uno sforzo e guardare oltre il semplice significato etimologico della parola. Infatti, il tema della giornata mondiale della biodiversità quest’anno riguarda l’andare oltre la tutela e impegnarsi a “ricostruire la biodiversità”. Cosa si intende e quali impegni richiede.

I fenomeni naturali hanno una componente fisica preponderante, comune a tutto l’universo, e una componente biologica talmente rara da essere speciale, in quanto unica ed esclusiva di un solo pianeta (per quel che a oggi sappiamo). Ciò che più distingue la vita dalla componente fisica universale è che essa è “processo” più che “sostanza”. Anche quando prende concretamente forma, in una quercia o in un gatto, non è come quando prendono forma un sasso o una stella. Questo rende difficile descrivere e comprendere la vita in tutte le sue manifestazioni, inclusa la biodiversità. Di certo però sappiamo che senza l’evoluzione la vita sulla Terra non sarebbe così varia.

A quanto pare è stato proprio un “problema di biodiversità” a fornire a Darwin la chiave per arrivare alla teoria evolutiva. Generazioni di studenti hanno appreso di questa rivelazione attraverso la storia iconografica dell’incontro tra Darwin e i fringuelli delle Galapagos. Al pari della mela di Newton, a questi pennuti e alla loro diversità viene attribuito il merito di aver fatto scattare in Darwin la scintilla che lo avrebbe portato a concepire la sua teoria. In realtà, Darwin non colse la biodiversità dei fringuelli delle Galapagos.

Darwin era convinto che i fringuelli delle differenti isole fossero varietà di una stessa specie, le cui differenze (per esempio nella conformazione del becco) non erano più apprezzabili di quelle dei piccioni che egli stesso allevava. Quando John Gould, l’ornitologo al quale aveva spedito i campioni, gli riferì che ogni varietà di fringuello era in realtà una specie diversa, Darwin rimase folgorato. “L’eureka” di Darwin non scaturì da quanto i fringuelli si differenziassero (come di solito riportano i libri di testo), ma da quanto erano simili pur appartenendo a specie differenti. Darwin capì che il fatto che specie diverse di fringuelli erano così simili significava che era in atto la frammentazione di quella che prima era un’unica specie in tante specie nuove, ognuna “in via di trasformazione” per adattarsi alle risorse disponibili sulla propria isola. Era la prova che confutava la “fissità delle specie”, che all’epoca era la teoria dominante che escludeva l’evoluzione.

Questa storia ci dice anche dell’altro: senza qualcosa che perturbi la loro continuità sul territorio e il loro equilibrio con l’ambiente, le specie tendono a rimanere invariate, o comunque a variare molto poco. La biodiversità, come l’evoluzione che la produce, è dunque una conseguenza del cambiamento geologico-ambientale. Se le isole avessero fornito tutte uno stesso ambiente ideale alla specie originaria, probabilmente Darwin avrebbe davvero campionato una sola specie di fringuello. Di fatto, però, Darwin aveva sottostimato la biodiversità alle Galapagos.

In realtà sarebbe più corretto dire che Darwin aveva sottostimato la “biodiversità tassonomica” dei fringuelli. La biodiversità tassonomica (numero di specie, generi, famiglie, e così via) è quella che noi percepiamo meglio anche dal punto di vista pratico: è la “spia luminosa” del “problema biodiversità”. Ma è solo lo schema semplificato con cui parliamo di una vasta e intricata rete di interazioni tra organismi viventi e contesto fisico: come la vita da cui prende forma, la biodiversità è “processo” (interazione), più che “sostanza” (quantità tassonomica).

La rete di interazioni da cui emerge la biodiversità di oggi è solo l’ultima di un’infinità di trame tessute nel corso delle ere geologiche; una sorta di tela di Penelope che va avanti da miliardi di anni e alla quale l’evoluzione non dà pace, disfacendola e ritessendola ogni volta con un nuovo ricamo; ogni volta una nuova rete di interazioni dove ogni specie è un “nodo” parimenti essenziale all’integrità della maglia ecosistemica e dei suoi equilibri.

La biodiversità si presenta come “problema” quando, per qualche motivo, si verifica una rapida perdita o un eccessivo indebolimento dei nodi. Ora, se ci limitiamo a considerare la biodiversità semplicemente come numero di specie, potremmo avere l’impressione che ogni volta che si rompe o si allenta un nodo basta farne un altro qua e là per mantenere la robustezza della rete e “ricostruire la biodiversità”.

Negli anni Novanta mi sono imbattuto in un libro dal titolo curioso: Lo strano caso del Lago Vittoria. Storia naturale di un microcosmo in bilico, di Tijs Goldschmidt. La presentazione sul retro mi aveva colpito perché descriveva una storia che mi sembrava in contrasto con quella dei fringuelli di Darwin: nel Lago Vittoria, in Africa, da un unico antenato si erano evolute, in pochi millenni, centinaia di specie differenti di pesciolini. Tutta questa evoluzione era avvenuta in un ambiente relativamente uniforme, di certo non discontinuo come quello tra un’isola e l’altra di un arcipelago, ognuna in grado di frammentare, con la sua specificità ecologica, la continuità di una specie e di generarne di nuove da ogni frammento.

Il focus del libro di Goldschmidt non era però sull’evoluzione ma sul suo punto cieco: l’estinzione. I furu, come vengono chiamati (in lingua swahili) i pesci della famiglia dei ciclidi del Lago Vittoria, stavano passando da una frenetica “radiazione evolutiva” a una repentina estinzione in massa. Si stima che nel Lago Vittoria vivessero fino a 500 specie di ciclidi alla metà del secolo scorso. Una gran bella biodiversità. Poi fu deciso di introdurre un ospite, la Perca del Nilo, molto più redditizia per il mercato della pesca seppur in grado non solo di competere con i ciclidi ma anche di predarli. Già negli anni Ottanta erano sparite tra il 60 e il 70% delle specie. Ecco un “problema biodiversità”: cosa si può fare per salvare le specie di furu rimasta? Possiamo ricostruire la ricchezza di biodiversità che c’era prima?

Ed ecco il punto: se vediamo il “problema biodiversità” limitatamente al livello in cui si manifesta, ovvero come scomparsa di specie, siamo portati a cercare una soluzione concentrandoci solo su quel livello. Perciò ci attiviamo per recintare, proteggere, ripristinare la biodiversità. In questo impeto protettivo ci dimentichiamo però della biodiversità come rete, e del fatto che la nostra protezione e i nostri tentativi di ricostruzione possono rivelarsi inutili, se non impattanti quanto le nostre azioni all’origine del problema. Questa visione più complessa della biodiversità ci spaventa perché ci fa sentire impotenti. Ci fa capire che forse i nostri mezzi potrebbero non bastare, che non sarà piantando alberi su un lato di una foresta che potremo compensare lo squilibrio causato dal disboscamento sul lato opposto. Anzi, così facendo probabilmente avremo solo innescato un altro disequilibrio. Ciò non significa, però, che allora tanto vale restare con le mani in mano; significa che è necessario puntare maggiormente su approcci preventivi basati sul rispetto della biodiversità, in quanto fenomeno meraviglioso, che possiamo proteggere ma non possiamo ripristinare a posteriori.

Prima che sull’ambiente dobbiamo intervenire su noi stessi. Non bastano gli investimenti economici e gli interventi mirati (che pure sono indispensabili); serve soprattutto un profondo cambiamento culturale. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che abbiamo trasformato il pianeta in un lago tutto per noi, e che siamo molto più numerosi e voraci della Perca del Nilo. Se non ci siamo ancora arrivati allora è questa la consapevolezza alla quale dovremmo puntare, nella giornata mondiale della biodiversità e in quelle successive.

*Domenico Ridente è ricercatore dell’Igag (Istituto di geologia ambientale e geingegneria) del Cnr