Cattura e stoccaggio della CO2: mito o realtà? Il governo norvegese attinge a piene mani alle tradizioni nordiche per proporre al mondo il suo progetto che si candida a seppellire nei fondali marini gran parte dell’anidride carbonica che le industrie europee produrranno nei prossimi anni. Il nome del piano complessivo è Longship, come le lunghe navi vichinghe che hanno solcato per secoli quelle acque freddissime. Il progetto di trasporto e di stoccaggio è stato invece ribattezzato Northern Lights, aurore boreali. Ma dietro i nomi che evocano il Grande Nord del nostro immaginario, ci sono obiettivi molto concreti: iniziare già dal prossimo anno a stoccare nei fondali 100 chilometri a ovest della costa norvegese 1,5 milioni di tonnellate l’anno di CO2 catturata dalle ciminiere europee. Una ambizione tutta scandinava che poggia anche su un pezzo di competenza italiana: Renata Meneguolo, responsabile della geologia all’interno di Northern Lights.

La incontriamo nella residenza dell’ambasciatore norvegese in Italia Johan Vibe che ha voluto illustrare il progetto del suo governo agli interlocutori italiani: dagli scienziati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia alle imprese (l’Eni per esempio).

Renata Meneguolo, responsabile della geologia all'interno di Northern Lights (foto: Silvia Kassold)
Renata Meneguolo, responsabile della geologia all’interno di Northern Lights (foto: Silvia Kassold) 

Dottoressa Meneguolo, cos’è esattamente Northern Lights?

“È un progetto di trasporto e stoccaggio geologico dell’anidride carbonica proveniente da impianti industriali. da terze parti. È un progetto commerciale: chiunque abbia un impianto di cattura può rivolgersi a noi. Porteremo i loro volumi di CO2 con delle navi fino a un terminal, vicino a Bergen, e da lì l’anidride carbonica verrà trasportata in forma liquida in un gasdotto che la porterà a un impianto sottomarino per l’iniezione in profondità”.

Quanto è lungo il gasdotto sottomarino? E a che profondità sarà iniettata la CO2 al di sotto del fondale marino?

“Il gasdotto è lungo un centinaio di chilometri e il pozzo arriva a 2800 metri di profondità”.

L’anidride carbonica sarà stoccata in un giacimento di combustibili fossili esausto?

“No. Il nostro approccio è diverso. Noi pomperemo la CO2 in un acquifero salino. Si tratta di un volume di roccia porosa i cui interstizi sono riempiti da acqua salata. Nel nostro caso la salinità è 73 grammi per litro, vale a dire più di due volte l’acqua del mare”.

E secondo le vostre previsioni quanta CO2 riuscirete a pompare nell’acquifero salito per il quale avete avuto la concessione dal governo norvegese?

“La fase uno di Northern Lights ha l’ambizione di stoccare un milione e mezzo di tonnellate di CO2 all’anno per 25 anni: un totale di 37,5 milioni di tonnellate. Con la fase 2 vorremmo incrementare questo volume fino a raggiungere 5-7 milioni di tonnellate l’anno per i successivi 25 anni”.

Dunque centinaia di milioni di tonnellate spinte a pressione nel sottosuolo: come si fa ad essere sicuri che non ci siano rischi geologici o per gli ecosistemi marini?

“Prima di iniziare le operazioni abbiamo misurato le condizioni pre-esistenti, sia geologiche che biologiche. E poi monitoreremo gli stessi parametri durante lo stoccaggio, in modo accorgerci in tempo reale se l’attività sta creando effetti indesiderati”.

C’è il rischio di perdite, di fuoriuscite della CO2 immagazzinata?

“Premesso che finora non è mai successo in alcuno dei giacimenti di stoccaggio esistenti nel mondo, noi abbiamo studiato in dettaglio la roccia di copertura dell’acquifero, che è la prima difesa, e abbiamo calcolato quali sono le sollecitazioni che può sostenere. Abbiamo studiato le faglie, attraverso le quali la CO2 potrebbe risalire verso la superficie. Ad ogni modo, nella nostra area le faglie terminano all’interno del sottosuolo senza raggiungere la superficie. Abbiamo realizzato i pozzi di iniezione dotandoli di barriere che impediscono il ritorno verso l’alto dell’anidride carbonica. Un altro fattore che può prevenire la fuoriuscita è che nel sottosuolo, tra il livello di iniezione e il fondale marino, c’è un secondo pacco di strati impermeabili. Ma anche se tutto questo non bastasse, si deve tener presente che la CO2 quando entra in contatto con l’acqua dell’acquifero salino di trasforma e se anche dovesse risalire si fermerebbe in altri strati geologici. Insomma, è completamente sbagliata l’idea che una possibile fuga generi un effetto tappo di champagne: è in realtà un processo lento e che se pure avvenisse porterebbe comunque allo stoccaggio della CO2, magari in altri livelli”.

Ma i fondali norvegesi sono particolarmente adatti a questa tecnologia di stoccaggio della CO2? O si potrebbe replicare in altri mari nel mondo?

“Acquiferi salini sono diffusi non solo nella piattaforma continentale norvegese, che ha però il vantaggio di non presentare una attività sismica così pronunciata come in altre aree. Anche se in Giappone sono stati realizzati impianti di stoccaggio a prova di terremoto. La caratteristica fondamentale della nostra concessione è che l’acquifero salino è adatto allo stoccaggio per le caratteristiche geologiche che presenta”.

A che punto sono i lavori?

“Il centro visite è ultimato, mentre il resto della parte su terraferma è completa al 70%. Ora stiamo installando i primi serbatoi arrivati dalla Spagna. Nel 2024 saremo operativi”.

Chi saranno i vostri clienti?

“Il mercato a cui ci rivolgiamo è quello nordeuropeo che si affaccia sul baltico o sul Mare del Nord: Francia, Gran Bretagna, Danimarca, Germania. Non mi occupo di business development, ma mi sembra logico che alle industrie italiane costerebbe un po’ troppo portare la sua CO2 via nave fin quassù”.

A proposito di costi, i critici dalla cattura e dello stoccaggio sostengono che è un processo troppo oneroso. E che per questo motivo, nonostante se ne parli da decenni, non è mai decollato.

“I prezzi finora sono effettivamente stati alti. Ma perché ogni sito di stoccaggio si rivolgeva a uno specifico emettitore. Non c’era standardizzazione e non ci si rivolgeva a una ampia gamma di clienti. Ora con Northern Lights si sta cercando di creare un mercato proprio per ridurre i costi”.

Lei, dottoressa Meneguolo, come è arrivata in Norvegia?

“È successo più di 15 anni fa, dopo una laurea e un dottorato in geologia all’Università di Padova. La Equinor (allora Statoil), all’epoca principale azienda petrolifera norvegese che oggi si occupa anche di rinnovabili e di stoccaggio, mi offrì l’opportunità di lavorare qui”.

Si è ambientata?

“Ci sono vantaggi pazzeschi e cose che ancora non digerisco. Le condizioni lavorative, per esempio, sono ottime. Però il cibo e il tempo… quando nevica a maggio inoltrato è davvero dura…”.