La prima volta che ho incontrato Rosalba Giugni è stato il 13 maggio scorso sul barcone sul Tevere dove ha sede Marevivo. Era appena stata approvata la Legge Salvamare e le brillavano gli occhi. Il barcone è un po’ délabré. A prua delle tende fanno ombra sopra tavoli e poltroncine, da lì si entra in una grande stanza dove alcune donne lavorano indaffarate ai loro computer, oltre ci sono lo studio della presidente, altre piccole stanze, una cucina. Sopra sventolano le bandiere blu di Marevivo con i due delfini. L’atmosfera qui sul barcone è vagamente esotica, quasi tropicale, febbrile e allegra. È un luogo di lavoro che sembra un luogo di vacanza.


Il barcone è per stare vicini all’acqua o è stato un caso?

“Più un innamoramento. All’inizio, nel 1985, siamo stati ospitati in una stanza dell’Associazione Vela d’Altura a Roma. Quando dovevamo incontrare qualcuno andavamo a pranzo in un ristorante sul Tevere, di fronte c’era all’ormeggio un barcone bellissimo e me ne innamorai. Il 24 agosto del 2008 il Tevere era in secca quasi come adesso, uno spunzone fece una falla e il barcone si adagiò sul fondo e fu invaso dall’acqua. Piansi, piangemmo tutti. Poi si era liberato quest’altro e abbiamo ricominciato. A fare tristezza  è il fiume senz’acqua, tra un po’ cammineremo sul greto asciutto: il cambiamento climatico è già arrivato e noi lo sapevamo e non abbiamo fatto niente per evitarlo”.

Salvare il mare

Come nasce la Legge Salvamare?

“Quando Sergio Costa divenne ministro per l’Ambiente lo invitammo a Marevivo, gli presentammo i problemi e persino una bozza che avevamo preparato. Lui capì e disse che avrebbe fatto una legge. Ci sono voluti 4 anni, ora Costa non è più ministro ma la legge è arrivata in porto. Ma non abbiamo finito, bisogna fare i decreti attuativi senza i quali resterebbero solo parole sulla carta. In questi giorni stiamo scrivendo lettere al presidente Draghi e ai ministri interessati insieme a tutto il mondo del mare, pescatori, armatori, cantieri, velisti, sub, chiediamo un ministero del Mare o almeno una cabina di regia alla presidenza del Consiglio. Ma sembra che il mare interessi poco, anche se il futuro dipende dalla salute del mare perché dalla salute del mare dipendiamo noi”.


Come è nata Marevivo?

“Un giorno da piccola trovai una maschera di mio padre e cominciai a guardare sott’acqua, e quel mondo mi affascinava. A un certo punto cominciarono ad arrivare le schiume e le plastiche, prima non c’erano. Anni dopo incontrai Fulco Pratesi e gli dissi ‘Voi del WWF  perché non vi occupate anche del mare?’. Mi rispose che avevano già molto da fare sulla terra e concluse ‘Perché non fai tu un’associazione?’ Misi insieme 27 tra cugini, parenti e amici e fondai Marevivo. Poi arrivarono Folco Quilici, Amedeo D’Aosta, Staffan De Mistura e quando mi chiedevano chi ci fosse nell’associazione facevo i loro nomi. Con Carmen Di Penta, direttore generale di Marevivo, costituimmo un ottimo comitato scientifico e cominciammo con l’idea di cambiare la mentalità della gente e creare una consapevolezza diffusa seguendo due strade, lavorare nelle scuole e fare grandi campagne. La prima cosa che facemmo fu andare a pulire le spiagge, mi prendevano in giro, Lina Sotis scrisse un articolo in cui mi chiamava ‘maringa’, casalinga del mare”.

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E il nome, Marevivo?

“Un giorno un mio amico avvocato presso la Sacra Rota mi suggerì di chiamarla Marevivo e capii subito che il nome era quello. Poi un amico velista mi portò una palette con i colori degli spinnaker (una vela triangolare che alcune barche montano quando hanno il vento di poppa, ndr) e scegliemmo questo meraviglioso blu, e poi i nostri amici delfini”.


Ma lei chi è?

“Nasco in una famiglia di imprenditori arrivati a Napoli con i Borbone. Un mio avo costruì la Napoli-Portici, la prima ferrovia italiana,  mio nonno creò una società di navigazione per collegare le isole, i vaporetti, e mi ricordo la puzza di nafta e la gioia di andare a Capri e i delfini che ci seguivano quando uscivamo dal porto. Mio padre ha partecipato alla costruzione dell’Autostrada del Sole. Quando avevo cinque anni stava costruendo una galleria della Circumvesuviana e per tenerci vicino prese una casetta sulla spiaggia a Vico Equense. I nostri vicini di casa erano un pescatore e sua moglie, Pappagone e Concettina, grassottelli, anziani, mi raccontavano tutte le storie del mare, quando era passata una balena, cosa facevano i delfini”.


Cosa ha studiato?

“Ho studiato a Napoli, ma soprattutto da sola. La mia era una famiglia tradizionale, quasi ottocentesca, le donne dovevano essere brave a gestire la casa e occuparsi della famiglia, lo studio non era previsto. Ho avuto in effetti una adolescenza e una prima giovinezza solitarie. Erano poche le cose che a una giovinetta erano consentite, ma il mio grande amico è stato il mare”.


Poi ha messo su famiglia

“Ho sposato un ingegnere romano bellissimo e siamo stati felici per 50 anni, ora non c’è più. Eravamo il contrario l’uno dell’altra, io sempre in acqua lui forse un bagnetto a Ferragosto, ma abbiamo trovato un modo di tenere in piedi le nostre passioni: lui amava molto la vela, aveva una barca antica tutta di legno, deliziosa, e io avevo in barca bombole, compressori e tutto l’armamentario per andare sotto. Io remo molto, mi piace andare sulle rocce, nelle grotte, conosco le isole italiane centimetro per centimetro e anche moltissime greche. Le campagne che abbiamo fatto nascono dall’osservazione, perché stando in mare capisci le cose che non vanno, come è avvenuto per la battaglia contro le spadare”.


Cosa sono le spadare?

“Sono barche che portano reti lunghe fino a 20 chilometri, nelle quali si impiglia di tutto e forse neanche un terzo di quello che viene pescato finisce al mercato. Quando cominciammo a occuparcene in Italia ce n’erano 780, faccia il conto, un muro distruttivo di migliaia di chilometri. Abbiamo impiegato 13 anni per avere una legge che le vietasse”.


Come è diventata ambientalista?

“È stato l’amore per il mare. Amo i boschi e le montagne ma è il mare che mi parla. Tra gli incontri ne ricordo uno da piccola, a Vico Equense. Raimondo Bucher era un sub che andava sott’acqua a cento metri anche quando aveva novant’anni. Un giorno pescò una spigola lunga quanto me. Quanto ai libri ne ho letti tanti, non ricordo qualcuno in particolare che mi abbia segnato, ma ne ho scritto uno, una favola ambientata a Capri, il mio posto del cuore, nel quale ho messo tutto il mio amore per la mia terra, le mie grotte, il mio mare. A determinare una svolta ancora una volta è stata un’esperienza. Io so cucinare molto bene e ho sempre mangiato di tutto ma avevo come un malessere interiore. Dicevo delle cose e poi mangiavo i pesci. Una volta partecipai a una battuta di pesca con un gruppo di amici che tra le altre cose presero anche una ricciola molto piccola. È un pesce che si prende quando è grande, mi sembrò quasi un delitto e io non volevo essere complice. Ho deciso così di non mangiare più animali, quella notte dormii benissimo e quando mi svegliai mi sentii leggera e felice”.

Quali sono le battaglie che avete vinto?

“Abbiamo fatto 18 campagne in tutto il Mediterraneo con l’Amerigo Vespucci e la Palinuro, nessuno sapeva cosa fosse la posidonia e oggi tutti la conoscono, abbiamo ottenuto leggi per la protezione e ora la stiamo ripiantando, come altri vegetali marini, le foreste del mare, che sono importantissime perché producono il 50% del totale dell’ossigeno e assorbono un terzo della CO2. Abbiamo cominciato a Trieste, è un progetto importante, ogni metro quadro di Cymodocea nodosa produce ossigeno come un grande albero. Abbiamo ottenuto il divieto della pesca  dei datteri di mare e delle oloturie, fondamentali per l’ecosistema marino. Ogni anello che sta nel mare ha la sua funzione, non se ne può togliere uno. Con la campagna Mare Nostro abbiamo ottenuto il divieto delle microplastiche nei cosmetici e i cotton fioc non biodegradabili”.


Puntare sulle campagne funziona?

“È fondamentale. Per arrivare a una legge noi stiamo addosso ai parlamentari ma non basta. Sono necessari il coinvolgimento attivo dell’opinione pubblica, la partecipazione, la consapevolezza. Abbiamo una rete solida e numerosa che coordiniamo da questo barcone dove mi affianca mia figlia Raffaella. La prossima sarà Isola Viva e Vegetal, stiamo lavorando per convincere i ristoratori delle isole a proporre un giorno la settimana un menù vegetariano. Il secondo pilastro sono le attività sul territorio, i nostri sub recuperano le reti fantasma sui fondali, la divisione spiagge e coste si occupa della pulizia a terra, la divisione vela segnala gli incontri, belli e brutti, i cetacei, i delfini e le tartarughe ma più spesso i grovigli di plastiche e rifiuti, la divisione kayak si occupa di laghi e fiumi. Il terzo pilastro, ma in ordine di importanza è forse il primo, è l’educazione, negli istituti nautici dove a ragazzi che hanno scelto di dedicare la loro vita al mare si insegnano tante cose ma non cosa sia il mare e come lo si protegge, e nelle scuole, tra i bambini e tra i ragazzi. Nelle isole minori abbiamo formato oltre 10 mila Delfini Guardiani, ragazzini che possono fare il loro lavoro di pulizia delle coste anche senza i genitori e segnalare alle autorità le cose che non vanno”.


Come si finanzia Marevivo?

“Bella domanda, vorrei saperlo anch’io. Per un certo periodo abbiamo avuto degli sponsor, e qualche sponsor ci accompagna in alcune campagne, abbiamo avuto un po’ di risorse dal ministero, partecipiamo a bandi ma ci sono soprattutto i soci e i donatori ai quali dobbiamo la nostra indipendenza. In realtà finanziariamente non stiamo benissimo. Quando cominciamo una campagna non sappiamo mai se riusciremo ad arrivare fino in fondo ma poi, non so come, ci arriviamo sempre”.