È l’elemento più prezioso che abbiamo e allo stesso tempo è quello che l’incuria e l’egoismo di un sistema produttivo e distributivo cieco sta mettendo seriamente a rischio. È l’acqua, risorsa naturale fondamentale per ogni essere vivente. Può essere fattore limitante, quando è troppa o quando scarseggia. In entrambi i casi, la relazione tra uomo e ambiente ha saputo costruire risposte resilienti, consentendo lo sviluppo delle comunità anche in zone molto umide o estremamente aride.

 

Oggi è un giorno speciale, la Giornata Mondiale dell’Acqua che cade in un momento molto delicato: perché proprio ora sono sotto attacco tutti gli sforzi e le conquiste fatte sul tema della transizione ecologica. Dopo una pandemia pesante sul piano economico e sociale, ci troviamo di fronte a una guerra che, oltre al dramma umanitario, crea effetti devastanti sul piano della speculazione, soprattutto in campo agroalimentare. Speculazione guidata dalle pressioni dell’agroindustria, che non vuole cedere il passo e approfitta del momento per alzare nuove barricate.

 

Più della metà dell’acqua dolce viene impiegata per usi agricoli. È la risorsa naturale a maggiore rischio di esaurimento proprio per via di quello stesso stile di vita che sta all’origine della crisi climatica.

 

Guardiamo l’allevamento. Il modello industriale è totalmente insostenibile; per produrre in modo intensivo un chilo di carne bovina servono più di 15.000 litri di acqua, a cominciare dalla produzione di mangimi che ne impiegano una quantità enorme con monocolture che stressano gli ecosistemi. Guardiamo alla nostra quotidianità. Sprechiamo oltre un terzo del cibo che produciamo, cibo che per essere prodotto necessita di acqua in campo e nella lavorazione post raccolta.

 

Il modello di vita che conduciamo non è compatibile con una risorsa idrica che non può essere garantita all’infinito. La siccità in Nord America ha decimato le produzioni di cereali, condizionando buona parte delle esportazioni in Europa e facendo balzare in alto i prezzi di beni essenziali. Altro che effetto diretto della guerra. La siccità in Corno d’Africa mette a rischio la sicurezza alimentare delle comunità locali. In Brasile, nel 2021, un periodo di asciutta lunghissimo ha visto scendere in modo drammatico il livello dei fiumi. Nel nostro Paese, ampie zone del centro-nord stanno patendo una siccità senza precedenti, con pochissima neve sulle montagne, fiumi in secca e la stagione primaverile che incombe. È a rischio, dunque, buona parte dell’agricoltura e dell’allevamento, soprattutto quello di piccola scala, strettamente legata alle risorse naturali e alla loro conservazione.

 

Eppure, in un contesto così delicato, un’informativa del Ministero delle Politiche Agricole ipotizza di rimuovere il “vincolo sulle superfici non irrigabili” per incrementare la produttività e spingere la produzione di materie prime come il mais (coltura ad alto impiego di acqua). E la transizione ecologica? Che senso ha coltivare di più senza tener conto della vocazionalità ambientale e delle specificità del nostro paese? Senza una corretta e attenta pianificazione?

 

In definitiva, si rimettono in discussione i già pochi elementi agroecologici della Pac. Qualcuno osa dire che sarebbe meglio abolire gli ecoschemi, fare passi indietro rispetto al Green Deal, rivedere al ribasso gli obiettivi della Farm to Fork.

 

E invece bisogna accelerare proprio le politiche di transizione ecologica, convincersi che dobbiamo assolutamente raggiungere una pace climatica tale da garantire un futuro ai nostri figli, auspicabilmente senza guerre, sia quelle delle bombe sia quelle della speculazione. Perché la crisi dei cereali, a livello globale, non dipende dalla guerra, ma dal cambiamento climatico e dalla cecità dell’agroindustria.

 

La risposta rimane l’agroecologia, che mette al centro la conservazione degli ecosistemi e delle risorse naturali. A cominciare dalla biodiversità, con l’impiego di varietà vegetali e razze animali adatte alla diversità dei territori e in grado di valorizzare al meglio le disponibilità idriche e la fertilità dei suoli. Giù le mani dall’agroecologia dunque.

 

*Fondazione Slow Food e Docente all’Università di Palermo