Strano destino quello degli squali. Da molti considerati esseri feroci e pericolosissimi per l’uomo, sono in realtà nostre vittime. Con una pesca massiccia e priva di vincoli, anno dopo anno stiamo causando l’estinzione di questi animali, che sono al vertice della catena alimentare degli ecosistemi marini e svolgono un ruolo fondamentale nell’equilibrio dei mari. E non si stratta solo di pesca accidentale. Gli squali vengono cacciati principalmente per la loro carne e per le pinne, quest’ultime considerate un cibo afrodisiaco. L’Italia, purtroppo, ha un ruolo da protagonista in questo massacro.

“Il nostro Paese – ci spiega Marco Spinelli, film maker e fotografo subacqueo, che, con il fratello Andrea, sta realizzando il documentario “Shark Preyed” (Lo squalo predato) – è il terzo importatore al mondo di carne e pinne di squalo, il primo in Europa. Il progetto nasce proprio dalla necessità di raccontare il commercio, che, occorre sottolineare, è legale, di carne di squalo, che sta mettendo a rischio la sopravvivenza di questa specie.”

I fratelli Spinelli, per questo, hanno dedicato uno dei passaggi principali del documentario alla vendita di carne di squalo nei supermercati in Italia, con l’obiettivo di mostrare al pubblico la tipologia di carne che viene venduta, ma soprattutto creare maggiore consapevolezza.

A che punto è il progetto del vostro nuovo documentario “Shark Preyed”?

“Lo stiamo finendo. Abbiamo strutturato – continua Marco – il lavoro per singoli episodi, come se fosse una serie, per poi immaginare la possibilità di rimontarlo come un unico documentario.”

L’impegno documentaristico dei fratelli Spinelli non è solo espressione del loro amore per il mare, passione nata sin da quando erano piccolissimi, o del desiderio di sensibilizzare il pubblico sui problemi del mondo subacqueo, ma rientra in specifiche attività scientifiche.

“Tutte le iniziative, sia quelle attinenti ai miei studi presso il centro di ricerca, che quelli che portiamo avanti insieme a mio fratello, – precisa Andrea Spinelli, biologo marino e ricercatore presso la Fundación Oceanogràfic di Valencia, dove si occupa principalmente di conservazione degli ecosistemi marini, biodiversità nel Mediterraneo e recupero di specie a rischio (come tartarughe, coralli, squali e cavallucci marini) – fanno parte di progetti scientifici. Il primo lavoro, “Missione Euridice”, è nato per divulgare la problematica delle reti fantasma, sensibilizzare le persone e valutare l’impatto delle reti abbandonate sui nostri ecosistemi marini. “Shark Preyed” racconta il commercio legale di carne di squalo in Europa e analizza gli stock di squali, che ogni giorno vengono pescati e immessi nel commercio mondiale.”

Ma come arriva la carne di squalo nei nostri piatti?

“Le carni di squalo finiscono – Andrea spiega quello che potremmo definire lo sharkwashing che circonda la sua vendita – sulle nostre tavole principalmente perché vengono commercializzate con nomi che non indicano con chiarezza la loro appartenenza. Una parola che non troverete mai scritta su una confezione o un’etichetta al supermercato è proprio squalo.  Quando acquistiamo palombo, verdesca, smeriglio, vitella di mare o nocciola, invece, lo stiamo per mangiare. Una corretta indicazione credo ridurrebbe da sola il consumo, che invece in Italia è in crescita. Occorre poi evidenziare che alcuni di questi esemplari sono sulla strada dell’estinzione.”

Per il documentario vi siete immersi con gli squali? Avete usato delle gabbie di protezione?

“Siamo riusciti – racconta Marco – a filmare il rapporto pazzesco che si può creare tra uomo e squalo, in questo caso la verdesca (cioè Prionace glauca, della famiglia dello squalo grigio, per capirci), una delle specie più a rischio a livello globale. Ci siamo immersi con sette squali nel loro habitat naturale. Nuotare con questo meraviglioso animale nelle acque di Bermeo nei Paesi Baschi non ha prezzo, è una sensazione primordiale, un contatto diretto con la natura, la sua essenza.”

Un’emozione profonda fatta senza alcuna protezione.

“Non abbiamo avuto la necessità di immergerci con gabbie metalliche – puntualizza Andrea – e solo pochissimi tipi di squalo potrebbero richiederlo. La fama di feroci killer, e di questa nomea il cinema ha sicuramente una responsabilità in negativo, è del tutto immeritata. Abbiamo cercato, piuttosto, di mostrare al pubblico una “relazione” possibile anche per contribuire a cambiare l’idea e gli stereotipi che circondano gli squali”.


In queste prime fasi di realizzazione di “Shark Preyed”, quali altri momenti vi hanno emozionato?

“Non ti nascondo che sono rimasto sconvolto durante la prima settimana di reportage del progetto – inizia Marco – quando, per documentare il commercio di squali, insieme ad Andrea e al nostro operatore video, Matt Evans, siamo andati in uno dei mercati ittici più importanti dell’Andalusia. Non avrei mai immaginato di vedere così tanti squali sui banchi del pesce. Eravamo tramortiti e abbiamo girato tutto. Abbiamo ripreso quello che a noi sembrava un massacro in tutta tranquillità. Nessuno ci ha detto nulla. Del resto il commercio di squali è perfettamente legale, anzi uno dei principiali piatti tipici della cucina locale e? il cazo?n, fatto proprio con questa carne. Rientra nella loro tradizione.”


Per Andrea, invece, è stato il ritrovamento di un giovane esemplare di squalo boccanera, intrappolato e senza vita in una rete abbandonata in mare, a emozionarlo.

“Il Mar Mediterraneo è il piu? sfruttato al mondo. Spesso e? possibile trovare intrappolati tra le reti abbandonate specie di elasmobranchi come razze e squali; questo fenomeno, conosciuto come “pesca fantasma”, e? molto difficile da monitorare, ma causa ulteriori e inutili morti. Un altro momento avvincente è stato la reintroduzione di squali gattucci nel Mediterraneo occidentale, come fase finale di un progetto di conservazione della Fundación Oceanogràfic di Valencia e dell’associazione Lamna.”


Al problema delle reti fantasma è dedicato il loro primo documentario, “Missione Euridice”, dello scorso anno, che, dopo essere stato premiato in numerosi festival, è ora su Amazon Prime Video. Un successo, visto che la prima missione, che si è conclusa con la liberazione dei fondali del Golfo di Cefalù da una tonnellata di reti abbandonate, era stata finanziata grazie crowdfunding. Un progetto che i fratelli promettono di continuare, anche perché è stato calcolato che ogni anno vengono abbandonate nei mari ben 640.000 tonnellate tra lenze e reti. Dati che fanno della pesca commerciale tra le principali cause d’inquinamento da plastica nei fondali oceanici.


Voi siete i testimoni del mondo sub. Come si rappresenta l’Antropocene vista da sotto? Qual è l’allarme maggiore?

“La presenza dell’uomo – confessa Andrea – ha influenzato negativamente gli ecosistemi marini, soprattutto negli ultimi 50 anni, l’inquinamento e il sovrasfruttamento delle risorse ittiche sono i nemici principali dei nostri oceani, che, insieme al cambiamento climatico, anch’esso aggravato dalla mano dell’uomo, stanno mettendo in ginocchio il nostro mare. L’essere umano è stato in grado di distruggere gran parte del mare che ci circonda, ed entro il 2100 la metà delle specie marine potrebbero essere scomparse dai nostri oceani, se non cambiamo rotta. Nonostante il quadro sconfortante, i nostri mari hanno una grande capacità di resilienza e, se protetti, sono in grado di poter ristabilirsi in tempi relativamente brevi. Se cambiamo, abbiamo ancora una speranza.”


Anche Marco è d’accordo.

“In questi giorni stavo riflettendo su come anche noi documentaristi e fotografi subacquei abbiamo una grande responsabilità. Spesso nelle nostre riprese e nei nostri scatti tendiamo a esaltare la bellezza del mare, nascondendo quanto di brutto vediamo. La realtà che testimoniamo spesso non è semplice da raccontare.”