“Quando parlo in pubblico lo faccio solo se sono certa di essere compresa, altrimenti non ha senso continuare”. Mossa da questa convinzione Serena Giacomin, (37 anni) climatologa, divulgatrice nelle scuole e presidente di Italian climate network, si prepara a prendere la parola sul palco del festival Treccani della lingua italiana, a Lecco dal 7 al 9 ottobre, quest’anno dedicato all’ambiente.

Che valore ha, da scienziata, partecipare a un festival sulla lingua?

“Come dice lo slogan della stessa manifestazione le parole valgono. Senza, anche la scienza è impossibile da comunicare. In un momento dove, fortunatamente, si parla sempre più spesso di ambiente e crisi climatica ho accettato di partecipare volentieri perché mi rendo conto di quanto le parole siano importanti per arrivare alle persone: i dati, le evidenze o i rapporti da soli non bastano”.

A voi scienziati viene spesso rimproverato di “parlare difficile”.

“È vero, succede, ma siamo noi i primi ad auto-rimproverarci. Ci siamo accorti che la comunicazione fatta finora non è stata particolarmente efficace e ci stiamo lavorando”.

Com’è cambiato il modo di comunicare la scienza negli ultimi anni?

“Chi si occupa di scienza ha capito l’importanza di usare un linguaggio più comprensibile perché si passi dai dati ai fatti. Partiamo dalla definizione: si parla sempre meno di cambiamento climatico e sempre più di emergenza e crisi climatica, proprio per sottolineare l’urgenza dell’azione in termini di mitigazione e adattamento”.

Qualche altro esempio di quanto sia importante il linguaggio?

“Pensiamo ai rapporti dell’Ipcc, che contemplano sempre un summary per i policy maker, fatto apposta per essere facilmente compreso. E proprio nel primo capitolo dell’assessment numero 6 la comunità scientifica ha deciso si usare il termine inequivocabile per indicare il rapporto tra emissioni di gas climalteranti e riscaldamento globale. Un termine decisamente inusuale”.

Perché?

“Noi scienziati parliamo di probabilità, al massimo di alta probabilità e correlazione altamente probabile. La scienza non restituisce mai certezze, ma evidenze sempre più approfondite e solide. Eppure in questo caso la comunità scientifica internazionale ha deciso di usare questo termine perché fosse inequivocabile il messaggio”.

Semplificando si può però correre il rischio di banalizzare il messaggio?

“Quando si tratta un fenomeno complesso come il cambiamento climatico, che riguarda sistemi legati tra loro in un modo non lineare, l’insidia di cadere nella banalità o nella superficialità c’è sempre. Io credo però che approcciarsi a questo tema con un’apertura mentale ci allontani da questo rischio piuttosto che alimentarlo. La banalizzazione ha altre origini, non certo il confronto sull’uso corretto delle parole”.

Quanto fare divulgazione nelle scuole aiuta a comunicare anche con gli adulti?

“Parlare ai ragazzi è un esercizio che costa fatica ma che dà grandi soddisfazioni. Trovare la maniera giusta – fatta di espedienti, esempi, giochi di parole – per cercare di spiegare loro il cambiamento climatico e i suoi legami con la siccità, l’economia o la sanità è una bella palestra. Ma spesso e volentieri sono proprio i ragazzi quelli con cui si fa meno fatica: hanno un’apertura e una velocità nel recepire le nozioni che è straordinaria. Il pubblico adulto è sempre più interessato al tema, ma ha più inerzia nel cambiamento e più difese quando si parla di questi argomenti. Non è sempre facile: è come se i grandi avessero dei paletti da superare”.

Nell’ottica della fruibilità delle informazioni quanto è importante il lavoro dei divulgatori sui social?

“Queste piattaforme vanno ormai riconosciute come uno dei principali mezzi di informazione e possono essere un vettore di conoscenza significativo, ma ci vuole un po’ di cautela. Credo che la velocità con cui si creano i contenuti su temi così complessi non sempre sia compatibile con il concetto di buona comunicazione. Alcuni divulgatori sono bravi, altri maldestri, c’è chi sa dare spunti interessanti e chi è superficiale”.

Come orientarsi allora?

“Non è facile prendere le misure, ma il mio suggerimento è controllare il curriculum di chi si decide di seguire, se è titolato a parlare di queste tematiche in modo responsabile. Non deve essere per forza un climatologo, ma un professionista in grado di verificare e utilizzare le informazioni. Ci sono anche fonti autorevoli che si occupano di comunicazione scientifica in modo appetibile e fruibile, come la Nasa o l’Organizzazione meteorologica mondiale. Trovare queste fonti, o persone che ci si affidano, è importante per non rischiare di farsi prendere in giro da chi porta avanti solo le proprie opinioni. È vero che ci vuole uno sforzo da parte di chi comunica la scienza, ma lo stesso serve anche da parte di chi usufruisce delle informazioni. E spesso anche questo manca”.