C’è una pianta marina che si fa largo nel Mediterraneo: si chiama Halophila stipulacea ed è una lontana “cugina” della Posidonia oceanica, a noi certo più familiare. Qui, nel Mare Nostrum, è arrivata – come spesso accade per le specie aliene – attraverso le acque di zavorra e le ancore delle navi commerciali, a partire dalla storica apertura del Canale di Suez. Ora, però, Halophila stipulacea sembra avere un alleato in più per la sua incontrollata diffusione: il cambiamento climatico.


Poiché si tratta di una pianta tropicale, predilige i mari caldi e si era sin qui sostanzialmente limitata al Mediterraneo sudorientale, dove la temperatura dell’acqua era molto più simile a quella dei mari di origine. Gli ultimi modelli matematici prevedevano che l’espansione verso Nord, con la completa invasione del Mediterraneo, sarebbe avvenuta non prima dei prossimi 50-100 anni. “Invece i dati reali indicano chiaramente che la sua invasione è in fase di accelerazione e questo quasi certamente a causa dell’incremento continuo della temperatura delle acque del Mediterraneo, che si sta scaldando molto più rapidamente di altri mari”, sottolinea Luigi Musco, docente del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’Università del Salento, che al caso ha dedicato, con il dottorando Andrea Toso, una ricerca i cui risultati sono confluiti in un articolo scientifico appena pubblicato sulla rivista “Mediterranean  Marine Science”.


Lo studio ha certificato la presenza di praterie aliene di Halophila stipulacea lungo le coste del Salento, da Otranto al Capo di Leuca, fino alla costa jonica, nel porto di Gallipoli e, più a nord, a Santa Caterina di Nardò e a Porto Selvaggio. Praticamente ovunque.


L’espansione più rapida del previsto

“Abbiamo iniziato le osservazioni nel 2021 individuando rizomi della pianta marina a Otranto, dopo un temporale, e ci siamo sorpresi della sua presenza in Puglia, dove non era segnalata dagli studi internazionali che ricostruiscono le dinamiche di invasione della pianta tropicale in Mediterraneo. – prosegue Musco – Una piccola nota, su una rivista di botanica del 2012, ci ha però segnalato una prima osservazione. E siamo partiti da lì, chiedendoci quanto e perché si sia diffusa in dieci anni”.

Le risposte? Sorprendenti.  La ricerca ha individuato praterie a profondità variabili tra un metro e mezzo e 30 metri di profondità, ma non si esclude la presenza anche più giù.  Al punto che lo studio vivrà una seconda fase, con l’utilizzo di ROV (i sottomarini a comando remoto),  sonar multibeam e side-scan-sonar per analizzare aree più vaste e profondità maggiori, e con un monitoraggio insieme all’Area Marina Protetta di Porto Cesareo. E se gli esperti concordano sulla causa principale dell’invasione, il trasporto involontario di frammenti della pianta tramite le imbarcazioni da diporto a favorire (non a caso la pianta è segnalata anche in luoghi turistici di intenso traffico marino come Castellammare in Sicilia, Palinuro in Campania, Cala Volpe in Sardegna e Nizza in Francia), non v’è dubbio che c’entra, anche stavolta, il climate change.

 

Come cambiano gli ecosistemi

Ma quali sono le potenziali conseguenze sulle specie autoctone e sugli ecosistemi? “La domanda è importante perché fornisce uno spunto di riflessione sul ruolo dell’evoluzione nello strutturare gli ecosistemi, garantendo il mantenimento della biodiversità ed il loro funzionamento, che è poi alla base delle nostre stesse esistenze. – spiega Musco – Gli ecosistemi, inclusi quelli marini, sono il risultato di migliaia e migliaia di anni di adattamento degli organismi all’ambiente e di interazioni tra gli organismi. Forme di interazione tra gli organismi come predazione, cooperazione, simbiosi si affinano grazie ad un lungo e continuo processo noto come coevoluzione”.

“È facile quindi immaginare – continua il ricercatore – che un nuovo organismo che appare d’improvviso e che fino a quel momento non aveva mai avuto alcuna forma di interazione con gli organismi nativi possa rompere l’equilibrio creatosi nel sistema. Nel caso delle praterie di Santa Caterina, il paesaggio sottomarino appare completamente modificato, con la comparsa di un vero e proprio ‘habitat alieno’. Sono proprio organismi come Halophila, capaci di modificare pesantemente gli habitat, quelli che destano maggior preoccupazione tra le specie aliene e per questo vanno accuratamente monitorati”.

 

Uno dei prossimi obiettivi ricercatori è, per esempio, capire quali specie se ne nutrono e se questa nuova dieta può avere effetti sulla fauna ittica: non di rado gli organismi vegetali originari di aree tropicali, producono sostanze potenzialmente deleterie per gli erbivori. “Vero, – conferma Musco – ed è il caso ad esempio delle diverse specie di alghe tropicali del genere Caulerpa che hanno invaso gran parte dei nostri mari e che possono influire negativamente sullo stato di salute degli organismi che se ne nutrono”.

 

Competizioni ad armi impari

C’è poi la questione della competizione. Perché Halophila sembra rubare spazio a una pianta nativa del Mediterraneo che forma habitat particolarmente pregiati e per questo protetti: Cymodocea nodosa, una fanerogama marina mediterranea, che in particolare colonizza i fondi mobili in aree riparate sotto costa. “In uno studio condotto in Tunisia è stato osservato che in breve tempo una prateria di Cymodocea è stata in gran parte soppiantata da una prateria di Halophila. – spiega il ricercatore – In questo caso si ipotizza che la maggiore velocità di crescita di Halophila e la sua capacità di adattamento siano tali da renderla competitivamente più efficiente della pianta marina mediterranea”.

E dunque il rischio è dietro l’angolo. Di più: è la stessa Halophila stipulacea a fornire un caso di riferimento di particolare interesse. “Nel 2002 inaspettatamente raggiunse il continente americano precisamente a livello dei Caraibi, anche in questo caso probabilmente a causa di imbarcazioni provenienti dal Mediterraneo. In meno di venti anni tutte le coste dei Caraibi sono state invase. In quell’area Halophila appare particolarmente competitiva rispetto alle piante native determinando effetti quali la sostituzione delle praterie native e il cambiamento, in alcuni casi positivo, con aumento di diversità e biomassa, in altri negativo della fauna ittica associata”. Un caso ritenuto emblematico: anche per questo va osservata con attenzione la diffusione di questa pianta marina tropicale che inizia a essere di casa dalle nostre parti.