Un articolo apparso su “Green&Blu” giorni addietro titolava “Sciacallo dorato appeso nel Parco delle Dolomiti: un gesto di odio verso una specie non pericolosa”. Questa volta il bracconaggio non c’entra; dopo che lo sfortunato esemplare di Canis aureus era stato investito accidentalmente, qualcuno ha pensato bene di appendere il corpo al cartello di “benvenuto” del Parco delle Dolomiti. Avevo già scritto di questo animale trattando il problema delle “specie aliene”, quella categoria di minacciosi invasori di cui fa parte anche il “lupo dorato” (preferisco chiamarlo così). Questo lupetto è infatti originario dell’Asia, ed è arrivato in Italia non a causa di qualche maldestro ripopolamento ma attraversando i Balcani sulle proprie zampette. L’avevo descritto in questi termini: “Un piccolo lupo che si comporta come una volpe ma con un nome infelice che non può che accrescere i guai che sarà destinato a incontrare nei suoi nuovi territori, che sono anche i nostri”.

La questione delle specie aliene è un buon esempio di come la prospettiva evolutiva offra spunti per una migliore comprensione del fenomeno e del problema biodiversità. Se però, da un lato, ciò aiuta a capire più a fondo le cose, dall’altro le complica, in quanto trasforma un compito già difficile (tutelare la biodiversità) in un’impresa titanica: tutelare la biodiversità non soltanto cercando soluzioni congeniali alle nostre capacità tecnologiche, ma anche tenendo conto di quei vincoli naturali che da sempre abbiamo aggirato per poter progredire, oltre che sopravvivere. Ma perché fare riferimento a una teoria che guarda al passato quando, per fronteggiare il problema della biodiversità, abbiamo a disposizione l’IA e la geoingegneria?

Nel 1973, il genetista ucraino Theodosius Dobzhansky, uno dei padri fondatori del Neodarwinismo e tra i principali evoluzionisti del Novecento, scrisse un saggio intitolato Niente in Biologia ha senso se non alla luce dell’Evoluzione.  È comprensibile che questa affermazione appaia esagerata a chi è meno addentro alle pieghe della teoria evolutiva; e che, di conseguenza, appaia tale anche l’idea che la prospettiva evolutiva possa dare un senso diverso alla biodiversità e alle strategie adottate per la sua tutela. Però è così che stanno le cose. Per esempio, da un punto di vista evolutivo, l’invasione di territorio da parte di specie “alloctone” non è quella grave minaccia per la biodiversità che l’attuale narrazione ecologista ci porta a credere; la nostra percezione è spesso distorta da come ci viene presentata la biodiversità: una “nostra” risorsa. Da questa prospettiva astorica e antropocentrica le specie aliene appaiono come una minaccia per la biodiversità nel momento in cui entrano in competizione con noi nello sfruttamento di quelle specie che abbiamo trasformato in prodotti agricoli e di allevamento.

Anche il fatto che l’uomo è da sempre il principale responsabile della diffusione accelerata di specie aliene assume un senso particolare alla luce della teoria evolutiva e delle sue implicazioni. Circa un decennio dopo l’uscita del saggio di Dobzhansky, un altro evoluzionista di rilievo, Richard Dawkins, evidenziava la pervasività dei meccanismi evolutivi con la sua “teoria del fenotipo esteso”. Secondo Dawkins, l’evoluzione ha affinato in alcune specie la capacità di utilizzare a proprio vantaggio i comportamenti di altre specie, come se quest’ultime fossero un loro “organo”, ovvero un’estensione del loro “fenotipo”. In quanto vettore rapido e a lunga gittata, l’uomo e i suoi comportamenti sono il perfetto fenotipo esteso per molte specie invasive in cerca di modi efficienti per diffondersi in nuovi territori.

Invadere nuovi territori fa dunque parte del gioco evolutivo da cui emerge la biodiversità. Questo dovrebbe suggerirci che la biodiversità non andrebbe considerata “in salute” quando in un territorio il numero di specie rimane invariato, o quando non vi sono nuovi competitori. La biodiversità prende vita proprio dalla possibilità che nuove specie sfidino quelle autoctone ricreando nuovi equilibri. Non vi è dubbio che, per colpa dell’uomo, i ritmi ai quali avviene la competizione tra specie autoctone e invasori mette alla prova la capacità di un ecosistema di stabilizzarsi attorno a nuovi equilibri; ma è anche evidente come ciò possa costituire un problema più per la nostra economia agricola che per la biodiversità.

Questo non toglie certo rilevanza al problema delle specie aliene, ma ci aiuta a mettere a fuoco un altro punto: l’agricoltura e gli allevamenti sono il nostro fenotipo esteso, un’appendice antropica più che una componente naturale; pertanto, e per quanto economicamente importanti, non vanno confusi con il problema della biodiversità, che spesso contribuiscono ad accentuare. Si pensi a quanto sta avvenendo e avverrà nei prossimi decenni nei paesi con vasti territori in zone sub-tropicali (Africa, Brasile, Sudest Asiatico), dove la povertà e la crescita demografica vanno a braccetto e l’unica soluzione nell’immediato sembra essere quella di trasformare le foreste vergini in terreni agricoli.

Questo scenario da solo dovrebbe bastare a convincerci della necessità di trovare un compromesso tra ciò che sappiamo fare meglio nell’immediato (la prospettiva antropica o geo-ingegneristica) e ciò che invece avrebbe senso fare ma non è nelle nostre corde (la prospettiva evolutiva, o di attenzione ai vincoli naturali). Il problema è che non sembra esserci consapevolezza della necessità di un tale compromesso nelle direttive contenute nei vari documenti strategici redatti ai fini della tutela dell’ambiente e della biodiversità. In questi report l’ambiente è visto come un insieme di “servizi ecosistemici” (ecosystem services), descritti come quelle parti dell’ambiente più essenziali alla nostra esistenza e per questo meritevoli di protezione; come se fosse possibile isolare delle entità naturali dall’interezza della rete ecosistemica.

Indipendentemente da quanto abbia senso questa concezione riduzionistica (storicamente poco affine alla biologia), basare la tutela della biodiversità sul suo essere per noi una risorsa indispensabile non è la migliore delle strategie. Così come non lo è quella di insistere sul fatto che animali come il lupo o l’orso non sono pericolosi per l’uomo, né di ostacolo alle sue attività. Questo tipo di “messaggio educativo”, al fine di sensibilizzare chi uccide oppure oltraggia gli animali appendendoli ai cartelli dei parchi, è inefficace semplicemente perché è falso. Gli animali selvatici hanno tutto il diritto di essere pericolosi, come quando, seguendo la loro natura, difendono sé stessi, il territorio e la prole.

L’idea che a una specie debba essere concesso di occupare un territorio perché è “amica” dell’uomo o perché non rappresenta un qualche tipo di insidia non ha alcun senso alla luce dell’evoluzione: questo di certo sarebbe il pensiero di Dobzhansky. Sta a noi ora decidere se tenerne conto oppure no. Se ne teniamo conto, ancora una volta la prospettiva evolutiva ci mette davanti a una sfida più ardua di quella preventivata: la “molla culturale” per tutelare la biodiversità non dovrebbe essere una forma di deterrenza, vale a dire la paura di perdere una risorsa necessaria alla nostra sopravvivenza (per quanto questa sia importante); dovrebbe essere invece il conseguimento di un senso di rispetto per la biodiversità in quanto tale, ovvero per la sua universale unicità e “inutile” bellezza.

Senza questa trasformazione culturale, fondata più sulla conoscenza del mondo naturale in cui viviamo che sulla nostra conoscenza tecnologica, non vi può essere una reale trasformazione in chiave ecologica della nostra società.  

Domenico Ridente – Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria (IGAG, CNR)